Nascita del Fascismo
Gli antefatti / Dopoguerra 1914-1918 / Quadro politico del dopoguerra / Partito popolare / Combattenti ed arditi / Nascita del movimento fascista / La conferenza per la pace / Ritorno di Orlando e Sonnino in Italia / Continua la conferenza per la pace con la presenza dei delegati italiani / Nascita dello squadrismo / Caduta del governo Orlando - Il nuovo governo Nitti / Tittoni a Parigi alla conferenza per la pace / Difficile convivenza a Fiume tra le forze interalleate / D'Annunzio a Fiume / Scioglimento delle camere - Nuove elezioni / La riapertura del parlamento / Mussolini dopo la sconfitta elettorale / L'operato del secondo governo Nitti / 11 maggio - 11 giugno 1920 - L'Italia nel caos politico e sociale / Giolitti al governo per l'ultima volta (L'occupazione delle fabbriche) / Mussolini ed il trattato di Rapallo / D'Annunzio ed il Natale di sangue a Fiume / Lo squadrismo fascista si estende dalla Venezia Giulia verso l'Emilia Quindi in Toscana, Veneto, Lombardia ed Umbria / La scissione comunista al congresso socialista di Livorno / La strage al teatro Diana / Giolitti si avvicina alle posizioni fasciste / Giolitti indice nuove elezioni / Programma fascista alle elezioni del 1921 / Le dimissioni di Giolitti / L'esordio di Mussolini alla camera / Governo Bonomi - Situazione dell'ordine pubblico ed il patto di pacificazione fra socialisti e fascisti / Fondazione del Partito fascista / Ultimi tentativi di Bonomi per superare la crisi / Governo Facta / I fascisti occupano Fiume / Il governo Facta battuto in Parlamento / La marcia su Roma e la conquista del potere / Mussolini al potere

1) GLI ANTEFATTI

Se ci guardiamo indietro per trovare le prime origini ed i primi fatti politici e sociali, che permisero al fascismo di conquistare il potere in Italia, dobbiamo spingerci con lo sguardo almeno all'anteguerra. Nel 1914 era scoppiata la "Grande Guerra" e I'Italia aveva seguito inizialmente una politica di neutralità. La tradizione giolittiana, ancora forte in Italia, non consentiva altre soluzioni politiche. Ma fermenti culturali, spinte sociali potentissime agivano in seno alla società italiana. Nel 1909 Marinetti "né pensatore, né artista serio, ma piuttosto un ciarlatano dotato di quel senso segreto che i ciarlatani, i politicanti, i commessi viaggiatori e giocatori posseggono e che fino ad un certo punto li rende profeti" aveva pubblicato a Parigi il primo manifesto futurista. Egli si era reso in tal modo interprete di un modo di pensare molto diffuso tra gl'intellettuali ed i ceti medi di tutta Europa, che sembravano opinare che "qualsiasi cosa, anche il disordine, il delitto e l'idiozia (fosse) migliore del presente stato borghese delle cose". L'ottocento aveva avuto come suoi superiori ideali la conquista dell'unità nazionale, dell'indipendenza. Il nazionalismo risorgimentale è conquista della dignità del popolo, è conquista delle istituzioni parlamentari, è conquista infine del suffragio universale. Il nuovo secolo vede il mutarsi degl'ideali risorgimentali: la nazionalità resta l'ideale supremo, ma è adesso da imporre attraverso l'affermazione della potenza italiana fra le nazioni europee. Di qui lo sgretolarsi ed il degenerare del parlamentarismo di stampo anglosassone, accettato dagli italiani, ma estraneo alla tradizione culturale italiana. Il sentimento della libertà in Italia "non deriva dal rispetto per qualche superiore opinione, ma dalla mancanza di rispetto per tutte le opinioni".
Già una prima occasione d'affermazione fu, per queste nuove correnti emergenti, l'impresa di Libia. Di lì a pochi anni venne la prova suprema la guerra mondiale. La tradizione socialista aveva però ottenuta la neutralità italiana. Ma emergeva ormai una nuova realtà: la piazza; essa poteva dominare, ed in effetti dominò, il parlamento. La battaglia per l'intervento fu condotta nella piazza dal ceto medio e borghese, smanioso di battersi per uscire da una inerzia senza fine. Ed in prima linea per la battaglia interventista troviamo proprio Benito Mussolini, che, con un voltafaccia improvviso, ma con intuito prodigioso dei sentimenti della piazza, era uscito dal partito socialista e nel gennaio del 1915 aveva aderito ai fasci d'azione rivoluzionaria muovendo da posizioni d'estrema sinistra verso l'intervento. Ancora nel settembre del 1914 Mussolini aveva condannato la guerra senza mezzi termini. Ma a novembre eccolo improvvisamente convertito all'interventismo più attivo e più ardente, al quale egli dava voce spesso volgare e sempre pugnace. Strana unione eterogenea d'uomini di sentimenti e destini diversi questi primi fasci d'intervento. Accanto a Mussolini erano sindacalisti come De Ambris e Corridoni, e giovani politici come Farinacci e Caldera, Nenni e Salvemini. Nel mese di novembre del 1914 Mussolini fondò "Il Popolo d'Italia" nuovo quotidiano. che propugnò l'intervento accanto agli alleati contro la Germania. L'interventismo mussoliniano provocò ovviamente la condanna decisa da parte dei socialisti ufficiali, scandalizzati dal repentino cambiamento d'opinioni del loro esponente politico; di conseguenza egli venne scacciato dal partito, così come già poco prima era stato fatto per Leonida Bissolati. Tuttavia Mussolini non pensava d'essere in aperto contrasto con le sue idee precedenti. " A suo parere, restava un socialista rivoluzionario perché aderiva alla storia e ne seguiva il movimento, mentre il partito (socialista), che si proclamava rivoluzionario, concepiva la rivoluzione come un dogma astratto e non sapeva intuirla negli avvenimenti." Eppoi lo stesso Mussolini in un suo articolo teorizzava il suo qualunquismo, pragmatismo e possibilismo, e soprattutto il suo impellente bisogno d'azione: "La vita è varia, complessa, multiforme: ricca di possibilità, fertile di sorprese, prodiga di contraddizioni. Chi è stolto che pretende di violentarla nel breve capitolo dl una formula, nella schematica proposizione di un dogma? Libertà, dunque libertà infinita. Libertà di ripudiare Marx, se Marx è invecchiato finito ; libertà di ritornare a Mazzini, se Mazzini dice alle nostre anime aspettanti la parola che ci esalta in senso superiore dell'umanità nostra; libertà di tornare a Prouhon, a Bakunin, a Fourier, a S.Simon, a 'wen, e a Ferrari, e a Pisacane, e a Cattaneo... agli antichi e ai recenti; ai vivi e ai morti, purché il "verbo " Sia capace di fecondare l'azione". Da parecchie fonti è stato dimostrato che il mutamento d'opinione circa l'intervento da parte di Mussolini fu determinato da finanziamenti, ricevuti dall'estero (in particolare dalla Francia) e dall'interno (in particolare da Naldi). Tuttavia "considerare il passaggio di Mussolini dal neutralismo all'interventismo come un puro fatto di lucro e di corruzione sarebbe errato. Il fattore decisivo va cercato nella passione di Mussolini per l'azione e per il comando : passione certamente stimolata, per rivalità, ma questa circostanza dalla posizione presa da uomini come Corridoni e De Ambris". Sicchè questo Mussolini della prima ora, pur muovendosi da posizioni di estrema sinistra, finì col trovarsi accanto ai nazionalisti, gruppo reazionario senz'altro fra i più accesi sostenitori dell'interventismo. 

2) DOPOGUERRA 1914 - 1918

La prima guerra mondiale fu combattuta, soprattutto dopo i fatti di Caporetto, sbandierando innanzi al soldato-contadino l'ideale di una guerra definitiva, alla quale non ne sarebbero seguite mai più altre, e che avrebbe visto terminare con la vittoria tutte le ingiustizie sociali, ed avrebbe quindi dato vita ad una pace giusta e duratura. Terra per tutti, giustizia per i combattenti, utopica fine di una vecchia società e nascita di nuova equità e di vera giustizia fra le nazioni e fra le classi sociali della nazione. Ma, terminato il conflitto, non fu affatto possibile mantenere quanto promesso; e si dava il via allora ad una sfilza di insoddisfazioni e di rivendicazioni sociali senza fine, e, senza speranza d'immediati miglioramenti. 
Si è mai vista una classe politica risolvere repentinamente tutti i problemi che da secoli attanagliano il suo Popolo? No, mai! E di certo la decadente classe politica italiana; con tutti i gravi problemi ereditati da prima, dopo la guerra, non era in grado di risolvere tutto in breve tempo. Soltanto il trascorrere degli anni, unito alla volontà degli uomini può mutare lo stato sostanziale degli atti economici. I politici del dopoguerra non ebbero il tempo d'essere messi alla prova. "La guerra aveva lasciato in tutte le classi sociali gravi fermenti e non solo il proletariato delle fabbriche e dei campi sembrava In preda a un vero furore di ribellione, ma anche nell'esercito... serpeggiavano forti aneliti rivoluzionari... Ufficiali e soldati erano d'accordo nell'esigere dalla guerra una più vasta giustizia sociale." Ovviamente la guerra aveva prodotto una ( profonda trasformazione anche nel tessuto economico della nazione. L'Italia dell'anteguerra era un paese eminentemente agricolo . Adesso le esigenze della produzione bellica, con la necessità assoluta ed impellente di produrre immense quantità d'armi e di altri beni d'ogni genere, avevano fatto nascere l'industria pesante, che tuttavia ) occorreva riconvertire adesso a produzioni di pace. "
La prima guerra mondiale, in Italia come in tutti gli altri paesi neutrali e belligeranti, produsse profondi mutamenti nella ! a economica. Rami della produzione che prima della guerra erano ad uno stadio rudimentale raggiunsero proporzioni enormi, mentre altri che erano fiorenti cessarono di esistere." "La vittoria e la pace non posero fine allo stato di confusione permanente che caratterizzava il governo e la società italiani. Al contrario: le divisioni che durante la guerra erano state in parte cancellate, si fecero ora sentire in tutta la loro forza... 
Un mutamento drammatico di un qualche tipo era inevitabile: le aspirazioni contrastanti e confuse nelle masse degli operai, dei contadini e degli ex combattenti, nonchè degli ex ufficiali, degli intellettuali, convergevano tutte nella richiesta di un ordine nuovo. Persino i portavoce ufficiali promettevano mutamenti di vasta portata". Ma per passare dalle promesse ad un'effettiva attuazione di giustizia sociale, il governo avrebbe dovuto scontrarsi contro grandi interessi precostituiti, ed essere tanto forte da abbatterli per un fine di giustizia di cui tutti parlavano, ma alla quale probabilmente pochi credevano. 
Di fronte alla grande maggioranza del popolo italiano che aveva sofferto le privazioni e i sacrifici della guerra sia al fronte sia nel paese, detto assai nell'occhio una minoranza che non solo non aveva sofferto, ma aveva largamente profittato della guerra per arricchirsi oltre misura". Speculatori, imprese di ogni dimensione, incettatori, mediatori, avevano accumulato enormi ricchezze e adesso, terminata la guerra, sfoggiavano la loro nuova conquistata opulenza in contrasto con la miseria e la crisi economica, che attanagliava il paesi. Sicchè venne a crearsi un profondo risentimento dei ceti medi, di quei ceti cioè che, formati da intellettuali, impiegati, piccoli proprietari terrieri, artigiani e piccoli commercianti, tutto avevano dato alla Patria. Contro gli "imboscati" ed i "pescicani", che non soltanto non avevano combattuto, ma avevano approfittato dell'occasione per arricchirsi. 
La constatazione della sperequazione economica esistente fra i neoricchi e gli ex combattenti, contrastava violentemente con quelle speranze di giustizia sociale e di nuovo ordine, nelle quali tutti avevano fatto assegnamento. Nella realtà dei fatti la crisi economica aveva origini molto profonde e legate alla situazione interna che a quella internazionale. All'interno i due problemi principali erano dati, anzitutto dalla necessità di riconvertire le produzioni, sino ad allora orientate verso fini bellici, in secondo luogo si poneva in termini drammatici il problema della smobilitazione, che avrebbe di colpo riversato dalle trincee verso le città e le campagne milioni di ex combattenti. 
Dicevamo che le difficoltà erano legate anche alla situazione internazionale. Infatti, durante la guerra, i traffici commerciali erano stati in buona parte gestiti dalla marina britannica: ma adesso terminato il conflitto, questa aveva, sotto la pressione dei gruppi armatoriali, liberalizzato i traffici. Ed allora per la legge del mercato le navi disponibili effettuarono trasporti soltanto verso e dai porti più ricchi. E l'Italia, che aveva perduto circa il 60 per cento del suo naviglio mercantile, ebbe grandi difficoltà ad approvvigionarsi e ad esportare. Cioè i commerci internazionali da e per l'Italia subirono gravissime limitazioni. Ciò comportò il rarificarsi di certi beni, in particolare delle materie prime, di cui il nostro Paese era ed è terribilmente deficitario, con il conseguente aumento dei costi. Inoltre, terminata la guerra, cessarono anche i finanziamenti sino ad allora concessi sui mercati finanziari di Londra e New York dagli alleati al nostro paese. Ad esso nessuno aveva interesse a sostenere una economia che avrebbe potuto col tempo diventare concorrenziale. A tutto ciò si aggiunge la difesa d'interessi corporativi (anche da parte di alcune categorie di operai privilegiati dalla guerra) di cui faceva parte chi aveva ottenuto vantaggi di vario genere durante la guerra, ed inoltre la lista dei reduci decisi ad ottenere qualcosa in cambio dei loro sacrifici di combatnti, ed infine la enorme penuria di merci, l'aumento sconsiderato del circolante cartaceo, avremo un quadro complessivo abbastanza preciso e abbastanza drammatico dello stato in cui versava la nostra economia post -bellica. Poichè la situazione economica giocò un ruolo molto importante nell' evoluzione : politica italiana, occorrerà tenere sempre presente il quadro economico del nostro paese, onde potere comprendere la rapida ascesa del fascismo al Potere.

3) QUADRO POLITICO DEL DOPOGUERRA

Terminata la guerra il governo di Vittorio Emanuele Orlando potè ottenere alla Camera conferma della fiducia del Paese verso il suo programma. Ciò almeno in apparenza. Il 27 novembre del 1918 infatti il governo, posta la questione della fiducia, ottenne 325 voti a favore e soli 33 contrari. Poteva quindi sembrare che il governo godesse di un 'ampia maggioranza parlamentare. Invece nella realtà dei fatti la situazione era ben diversa. Era infatti scoppiato immediatamente un insanabile dissidio fra Bissolati e Sonnino, cioè fra due degli elementi più qualificanti e qualificati del governo. 
"Si spezzò... il fronte unico degli antichi interventisti; e alla collaborazione, sia pur fredda e condizionata, subbentrò una fiera polemica fra quelli che stavano fermi al patto di Londra e quelli che volevano transigere e rinunziare"; fra quelli che abbandonavano agli Slavi la Dalmazia per aver Fiume, quelli che pretendevano la Dalmazia e Fiume e altro ancora, compreso o no nel patto di Londra". Sonnino, che il 26 aprile del 1915 aveva negoziato con Francia, Inghilterra e Russia al Patto di Londra, restava legato con caparbietà alle promesse contenute in questo documento. Secondo il Patto di Londra, a guerra finita e vinta, all'Italia sarebbe toccato: 
a)il Trentina, di lingua italiana; b ) il Sudtirolo, del tutto tedesco); c) Trieste e Gorizia di lingua italiana; d) gli interlands di queste due città, per la maggior parte slovena e ) la Dalmazia e le isole dalmate, quasi del tutto slovene, se si eccettuano alcune città della costa, quali Zara e Fiume; f) protettorato di fatto e di diritto in Albania e nelle isole del Dodecaneso; g) concessioni, da trattare a parte, in Medio Oriente ed in Afica, a compenso dei guadagni territoriali effettuati dalle altre potenze alleate a spese dei tedeschi e dei turchi. Alla fine della guerra però erano mutati molti oggetti e soggetti del trattato, fatto questo che, all'atto della firma del trattato era imprevedibile. Infatti al tavolo della pace c'erano adesso non soltanto gli italiani, gli inglesi ed i francesi, bensì anche gli Stati Uniti, che a suo tempo, essendo neutrali, non avevano sottoscritto il Patto di Londra, di conseguenza non lo riconoscevano. In secondo luogo l'Impero austro-ungarico era stato smembrato (mentre il Patto di Londra ne prevedeva la sopravvivenza) e da esso erano sorti nuovi stati nazionali. In particolare a noi italiani interessava la nascita dello stato jugoslavo. Infine Wilson, con i suoi 4 punti, accettati in linea di principio anche dall'Italia, aveva posto la "nazionalità" come principio fondamentale per segnare i nuovi confini politici degli stati. AIl'atto dell'intervento americano nessuno si preoccupò di fare accettare anche agli Stati Uniti il Patto di Londra, e bisognosi tutti di 'ingraziarsi il prezioso alleato, si fece gara ad enunciare e a sbandierare i 14 punti di Wilson, anche se in effettii pochi della vecchia classe politica credevano nelle utopie wilsoniane. Tutti pensavano di potersi servire degli ingenui americani, per scaricarli poi a guerra finita, facendo ognuno i propri interessi nazionali. Con maggiore lungimiranza, Bissolati, che aderiva effettivamente allo spirito dei 14 punti di Wilson, era d'idee del tutto diverse ed opposte, rispetto a quelle di Sonnino, egli era contrario alla annessione del Sudtirolo, abitato da popolazione tedesca, e alla annessione della Dalmazia, abitata da popolazione slava. Tali annessioni erano ingiustee avrebbero condotto inevitabilmente a nuove guerre... Gli inviati italiani dovevano rinunciare alla Dalmazia e chiedere invece Fiume... Inoltre... gli inviati italiani... avrebbero dovuto aiutare Wilson per creare la Società delle Nazioni, forma superiore della vita internazionale, per far sì che la guerra raggiungesse lo scopo sacrosanto di liberare l'uomo dalla schiavitù della guerra ". 
Tuttavia la proposta di Bissolati non tro'vò d ' accordo Orlando e Sonnino, sicchè il '"soldato delI'intesa", così Bissolati era definito, il 28 dicembre del 1918 si dimise dal governo Orlando trovandosi in disaccordo profondo con l'indirizzo prevalente del governo in politica estera. 
Tutti questi dissidi e queste "liti in famiglia", divulgate daglI organi d'informazione, portarono l'ltalia ad acquisire "la psicologia di una nazione sconfitta". 
Ai primi di gennaio giunse in visita ufficiale in Italia il presidente Wilson. Il 3 ed il 4 Gennaio egli fu a Roma, accolto con onori solenni da un vero tripudio di popolo. Egli ribadì in tutte le circostanze ed in tutti i suoi discorsi, la fedeltà del suo paese ai 14 punti, e la sua speranza che la Società delle Nazioni potesse, nascendo, costituire per l' avvenire una sicurezza Contro tutte le guerre. Il giorno 4 Wilson s'incontrò con Bissolati, effettuando un gesto di vera scortesia nei confronti del presidente Orlando, ch 'egli sapeva in netto contrasto con il "rinunciatario" Bissolati. Successivamente Wilson si recò a Milano, anche qui accolto entusiasticamente. Il giorno 1 a Milano si ebbe al Teatro alla Scala una riunione della Associazione dei Fautori della Società delle Nazioni. Nel corso di questa riunione era previsto l'intervento di Bissolati, il quale avrebbe approfitato della occasione per ribadire i suoi concetti di fedeltà alla Società delle Nazioni. "
Ritorneremo su questo episodio, in quanto nella realtà dei fatti a Bissolati venne impedito di parlare ; e questa fu la prima spedizione dei fascisti a carattere violento e sopraffattivo; essi infatti non consentirono a Bissolati di farsi comprendere dall'uditorio, e di portare a termine ill suo discorso. Il 15 gennaio anche Nitti, solidale con Bissolati si dimise. Tuttavia Nitti, uomo senz'altro politicamente più dotato, evitò le dichiaraziohi plateali, tipo quelle già rese dal ministro Bissolati, preferendo restare in disparte in attesa di un momento migliore. Sicchè Orlando si vide costretto a rimaneggiare profondamente il suo governo. 
Uscirono dal governo : Nitti, Bissolati e Sacchi, capo dei radicali; entrarono al loro posto De Nava, Facta (della corrente giolittiana), Girardini e Riccio (della corrente di Salandra). Nella realtà dei fatti tra il presidente Ornlado e Sidney Sonnino non vi era perfetto accordo.. Orlando era senz'altro più flessibie nei confronti della nascente Jugoslavia, e di ciò aveva già dato prova nel 1918, quandoera stato "convocato a Roma, sotto la presidenza del senatore Ruffini, un congresso delle nazionalità oppresse. Quest'ultimo diede origine al "Patto di Roma ", nel quale fu affermato che l'unità e l'indipendenza della Jugoslavia costituivano un "intresse vitale" per l'Italia". Tuttavia non bisogna pensare che soltanto Bissolati facesse parte della corrente rinunciataria, in vero, accanto al "soldato dell'Intesa" c'erano uomini d 'ideologie diverse come Giolitti, Turati, Nitti e Salvemini.Appoggiavano inoltre le idee di questi uomini giornali quali "IL Corriere della Sera", "II Secolo" e l' "Avanti". 
Si opponevano ai "rinunciatari", e stavano quindi accanto a Sonnino, i gruppi politici "che facevano capo a Mussolini, Barbirai D' Annunzio, i quali esigevano tutto quello che era stato promesso all'Italia nel Trattato di Londra e magari anche qualcosa di più. 
Mussolini, nella sua qualità di firmatario del Patto di Roma, teneva i piedi in due staffe e stava già cercando di essere l'uomo di tutti e di tutto."

4) PARTITO POPOLARE

Tra il dicembre 1918 ed il seguente gennaio 1919, un nuovo partito politico fece il suo debutto sulla scena italiana: il Partito Popolare, d'ispirazione cattolica. L'avvenimento fu molto importante, qualora si consideri che sino ad allora, almeno ufficialmente, i cattolici italiani non avevano partecipato alla vita politica nazionale. Prima del 1870 il Papa era stato dotato oltre che di potere spirituale anche di potere temporale, ch'egli esercitava su ampi territori del centro Italia. Annessi dall'Italia tutti i territori del Papa, Roma compresa, il Papa insieme alla sua corte si ritirò nel cosiddetto Vaticano, un complesso di edifici, giardini e altri terreni, che coprono un'area di circa 44 ettari sulla riva destra del Tevere". II Parlamento italiano aveva allora approvato la così detta "legge delle guarentigie", con le quali aveva sancito la libertà ed indipendenza del Papa, ed aveva anche stanziato una cifra d'appannaggio annuale per il mantenimento della corte vaticana. Si trattava tuttavia di una legge del parlamento italiano, il quale avrebbe potuto, in qualsiasi momento, abolirla o modificarIa. Sicchè i vari Papi succedutisi negli anni seguenti, non l'avevano mai riconosciuta. Leone XIII, ritenendosi prigioniero in casa propria dello stato italiano, proibì ai fedeli italiani di partecipare alla vita politica, sia votando che presentandosi come candidati al Parlamento. I Papi successivi non modificarono sostanzialmente questa loro posizione, anche se il comportamento del Vaticano nella prassi giornaliera diveniva sempre meno intrasigente. Frattanto assumeva sempre maggiore rilievo nel mondo occidentale tutto, la questione sociale. In questo campo anche la Chiesa di Roma sentì l'esigenza di pronunciarsi. Destò allora grande scalpore la pubblicazione, avvenuta nel 1891, dell'enciclica di Papa Leone XIII "Rerum novarum ", secondo la quale "operai e padroni dovevano collaborare e non combattersi" e si auspicava inoltre "una più coraggiosa milizia sociale del cattolici e di una lotta al socialismo non sul piano della mera opposizione, ma della Concorrenza ". Fu appunto in questo rinnovato clima sociale che venne formandosi un gruppo di cattolici italiani, i quali, capeggiati da Romolo Murri, un sacerdote marchigiano stabilitosi a Roma, intrapresero un'ampia operazione di propaganda cattolico-sociale, costituendo una Lega, quasi sindacato di stampo cattolico. La chiesa cattolica tuttavia, non soltanto non approvò, bensì fece di tutto per scoraggiare l'iniziativa del Murri, che nel 1907, essendosi ribellato agli ordini delle autorità ecclesiastiche, fu sospeso a divinis . "Murri e la sua Lega, quindi, cominciarono a cercare appoggi all'estrema sinistra e a chiedere la separazione totale della Chiesa dallo Stato.. In uno stato d'animo di crescente delusione e amarezza, Murri finì con l'assumere un atteggiamento di anticlericalismo militante che nasceva da convinzioni religiose. Nel 1909 fu eletto al parlamento nelle sue Marche come radicale, (sedendo) all'estrema sinistra, vestito da prete... (ciò) indusse Giolitti a chiedere se l'estrema sinistra si fosse procurata un "cappellano". Tuttavia l'idea democratica cristiana sopravvisse al Murri, soprattutto grazie all'instancabile opera di un altro prete: don Luigi Sturzo. Originario di Caltagirone, era divenuto un esponente dell'Azione Cattolica siciliana. "Come Murri, egli vagheggiava un partito cattolico nazionale e democratico che fosse indipendente dal Vaticano... inoltre condivideva anche il disgusto di Murri pr l'acquiescenza di Pio X alle pretese politiche del conservatorismo laico. Obiettivo deI partito autonomo, aconfessionaIe e Iaico a cui egli pensava... sarebbe stato... il più completo sviluppo dello stato laico unitario delle libertà democratiche, tra le quali le libertà cattoliche avrebbero trovato il loro posto". A differenza di Murri, Sturzo non si era ribellato alla condanna, ma vi si era invece sottomesso in silenzio aspettando che i tempi fossero maturi per un movimento cattolico che cercasse al tempo stesso dì essere demcratico". Frattanto il nuovo pontefice Benedetto XV , Papa illuminato e democratico, aveva già attenuato la portata del non expedite, terminata la grande guerra, lo rimosse del tutto, consentendo quindi ai cattolici di partecipare ufficialmente alla vita politica deIla nazione italiana. Il Partito Popolare non fu fondato per iniziativa della Curia vaticana, tuttavia, all'esterno era ampiamente appoggiato dalla gerarchia ecclesiastica, molto potente allora, soprattutto nelle campagne. Ufficialmente "il Papa Benedetto XV ed il suo segretario di stato cardinal Gasparri nè approvarono nè proibirono la nascita del nuovo partito politico: Io ignorarono. Ma ignorandolo lo permettevano, o almeno lo tolleravano". II Partito Popolare italiano all'atto della sua nascita presentò il suo programma politico agli "uomini liberi e forti". Questo programma venne sottoscritto da una commissione, della quale facevano parte, oltre a don Sturzo, alcuni parlamentari ed importanti esponenti politici, come Giovanni Bertini, Giovanni Longinotti, Angelo Mauri, Giulio Rodinò, Achille Grandi. Il programma del Partito, articolato in dodici punti, prevedeva: "tutela della famiglia, infanzia, tutela della moralità pubblica, libertà d'insegnamento in ogni tipo di scuola (è da tenere presente che numerose erano allora le scuole gestite da ecclesiastici, e quindi questa norma tendeva a garantirne la libertà) riconoscimento giuridico e libertà dell'organizzazione di classe nell'unità sindacale (in questo campo il Partito Popolare doveva fare i conti con la Confederazione Generale del Lavoro di ispirazione marxista); legislazione sociale nazionale e internazionale (fra postulati specifici erano "incremento e difesa della piccola proprietà rurale e del bene di famiglia"); organizzazione di tutte le capacità produttive della nazione (con conseguente eliminazione del latifondo, che ancora esisteva soprattutto nel sud); libertà ed autonomia degli enti locali: riorganizzazione della beneficenza pubblica, con rispetto delle istituzioni private (cioè di quelle eclesiastiche); "libertà e indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale; libertà e rispetto della coscienza cristiana, considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo"; riforma tributaria; riforma elettorale politica, fondata sulla proporzionale, voto alle donne, senato elettivo corporativo; difesa nazionale, tutela e valorizzazione della emigrazione italiana; sfere di influenza per lo sviluppo commerciale del Paese; politica coloniale in rapporto agI'interessi nazionali, ed ispirata da un programma di incivilimento dei poli colonizzati; in politica estera, pieno appoggio agli ideali di Wilson per la creazione di una Lega delle Nazioni; arbitrato internazionale in caso di controversie tra gli stati; abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria; disarmo universale. 
Venne nominato primo segretario politico del Partito, don Luigi Sturzo, che, accettando l'incarico si rendeva conto come il programma del Partito Popolare non fosse contrario agl'interessi del Vaticano, perchè se fosse stato contrastante con le idee della curia, egli avrebbe senz'altro subito gravi censure da parte dei suoi superiori ecclesiastici, dai quali, nella sua qualità di sacerdote dipendeva. NeI complesso il Partito Popolare con il suo programma moderato, si presentò all'elettorato italiano come partito interclassista. Esso adottò come simbolo uno scudo crociato con la parola Libertas. Libertà quindi: secondo don Sturzo questa libertà doveva essere garantita a tutti, ai cattolici e ai non cattolici. Dello stesso avviso non erano tuttavia gli uomini della sinistra. Ad esempio Gaetano Salvemini ritenne che si trattasse di una libertà a senso unico, cioè una libertà "cattolica". Sappiamo bene, diceva in sostanza il Salvemini, che la libertà della Chiesa ammette soltanto la libertà per il bene, o meglio la libertà per ciò che essa definisce essere il bene. Di conseguenza la sinistra ritenne che questa libertà, alla quale il Partito Popolare faceva riferimento, fosse non per tutti, bensì soltanto per coloro che si uniformavano all'insegnamento della Chiesa cattolica. Se i cattolici avvessero ottenuto il potere, la sinistra riteneva che lo avrebbero usato per sopprimere "il maIe", o almeno ciò che la Chiesa riteneva fosse "il male". Secondo il Salvemini "in altre parole, il partito rimaneva autonomo finchè non faceva niente che fosse sgradito alle autorità ecclesiastiche, ma il giorno in cui queste dichiaravano che non potevano più approvare il suo operato, il partito si sarebbe trovato ad un bivio: o rinunciare alla propria autonomia e obbedire alle autorità ecclesiastiche, o affermare la propria autonomia e affrontare una condanna da parte delle autorità ecclesiastiche." Il Partito Popolare Italiano venne a porsi tenuto conto della sua struttura politica, fra i gruppi liberali e quelli socialisti. Sin dall'inizio questo partito presentò una struttura interclassista, che poteva senz'altro favorirne l'ascesa al potere, ma nel contempo non avrebbe effettivamente potuto orientare compiutamente le masse verso precisi ideali politici. E' molto importante notare come tra il programma del Partito Popolare e quello dell'Azione Cattolica, vi fossero notevoli affinità di ispirazione: entrambi erano apertamente e dichiaratamente cattolici, e quindi necessanamente entrambi dovevano tendere al medesimo scopo politico e sociale. Restava sempre in piedi la questione romana, che il Partito Popolare, imbarazzato all'inverosimile ad assumere una qualsivoglia posizione, fu costretto ad ignorare completamente. Esso infatti, non avrebbe potuto approvare lo stato italiano senza incorrere nelle ire del Vaticano, nè avrebbe potuto schierarsi apertamente dalla parte della Chiesa di Roma, senza entrare in conflitto con la maggioranza del popolo italiano, il quale tutto aveva voluto ed agognato alla fine del potere temporale papale. Senz'altro la curia romana, tramite il cardinal Gasparri, dovette dare la sua approvazione a questa ignoranza del problema da parte del nuovo partito popolare. Ma la curia aveva importanti ragioni per comportarsi in tal senso. In quello stesso periodo infatti Benedetto XV aveva già iniziato segreti abboccamenti con i responsabili politici italiani. Erano infatti già avvenuti contatti a Parigi ed in altre sedi tra i governanti italiani e vari inviati del Papa, al fine di delineare un possibile accordo tra la Chiesa di Roma e lo stato Italiano. Questi contatti, già iniziati d Orlando, vennero sospesi in seguito alla caduta del governo. Nitti, nel corso del suo breve e tormentato governo, ebbe soltanto conversazioni sporadiche sull'argomento col cardinaI Gasparri. Tuttavia è importante ricordare questi incontri, al fine di rendersi conto come i patti lateranensi non siano stati altro che la logica conclusione di questi continui contatti e della comune volontà delle parti di giungere ad una definitiva conclusione della questione romana. La nascita del Partito Popolare rappresentò una serie di vantaggi, ma anche di svantaggi, per la vita politica italiana. Possiamo annoverare tra gli esiti positivi, la partecipazione alla vita politica nazionale dei cattolici, che, a causa della questione romana erano rimasti assenti dalla scena politica. Tuttavia questo nuovo partito, interclassista e centrista, finì con l'erodere la base elettorale sia dei partiti di destra che di sinistra, per cui non si riuscì a costituire in Italia nè una destra storica abbastanza forte, nè una sinistra di dimensioni tali da potere aspirare al governo democratico del Paese. Per altro, sin dall'inizio, questo nuovo partito ebbe non soltanto l'appoggio del clero, bensì anche quello di una ventina di quotidiani e di decine di settimanali; grazie quindi ad un notevole apparato giornalistico ed all'opera instancabile e capillare degli ecclesiastici, soprattutto nelle zone di campagna, in breve tempo poterono formarsi migliaia di sezioni con decine di migliaia di tesserati. Il Partito Popolare nacque quindi con una organizzazione poderosa alle spalle, che consentì ad un partito nuovo, sin dalla prIma prova elettorale, di ottenere in parlamento una cospicua rappresentanza. Il Partito Popolare tenne un suo primo congresso nel giugno del 1919. N el corso di esso emersero tre correnti dominanti: la destra, che faceva capo a don Gemelli, che aveva acquisito grande notorietà come cappellano militare durante la guerra ; don Gemelli auspicava un partito clericale e confessionale, strettamente legato alla religione cattolica ed alla gerarchia ecclesiastica. Una seconda corrente, di sinistra, capeggiata da Miglioli, pacifista ben noto e sindacalista, chiedeva che il partito assumesse un orientamento anticapitalista e proletario: in pratica un partito "marxista-cristiano". Infine una terza corrente, che era di gran lunga la più numerosa, e faceva capo a don Sturzo, ma che vedeva già tra i suoi più importanti esponenti il giovane AIcide De Gasperi, ex deputato di Trento presso il parlamento di Vienna, il quale gruppo auspicava un partito aconfessionale, interclassista, con un ampio programma di riforme sociali: tra le quali la più urgente era l'eliminazione del sistema elettorale giolittiano e la creazione di rappresentanze parlamentari con il sistema proporzionale: ciò avrebbe consentito di eliminare i sistemi disonesti ed intrallazzistici di Giolitti e della sua cricca, ed avrebbe consentito al grandi partiti di massa, di entrare con ampie rappresentanze nel parlamento. In fatto di politica estera, tutte le correnti del Partito Popolare erano wilsoniane, accettavano quindi del tutto i 14 punti di Wilson, auspicando tuttavia, con un certo realismo, che alla Lega delle Nazioni venisse data la forza per potere imporre ai riottosi la propria volontà. Nel novembre del 1919 il papa Benedetto XV tolse definitivamente il non expedit ed infine eliminò anche il divieto, sino ad allora imposto, al capi di stato cattolici di visitare in forma ufficiale la capitale d'Italia. Iniziava fra Stato e Chiesa un clima di serena collaborazione, che avrebbe potuto favorire il Partito Popolare, se non fosse inrvenuta la dittatura mussoliniana, a spazzare via tutti i partiti e tutte le forme associative politiche avversarie.

5) COMBATTENTI E ARDITI

Al termine della Grande Guerra, tutti gli ex-combattenti, posti in congedo, sentirono l'esigenza di riunirsi in un'associazione nazionale al fine di ottenere la tutela degli interessi della categoria. Nasceva così nei primi mesi del 1919 l'"Associazione Nazionale Combattenti". Scopi dichiarati di quest'associazione erano quelli di mantenere la solidarietà di trincea, esaltare l'apporto dato dai combattenti alla Patria, valorizzare al massimo i meriti combattentistici ed ottenere per chi aveva combattuto diritti e privilegi. Gli ex-combattenti non erano legati ad alcun partito, per cui riunivano uomini dalle idee e dalle ideologie più diverse; tuttavia in questo loro atteggiamento apartitico si nascondeva l'insidia del qualunquismo. Essi abituati dalla lunga vita di trincea a considerare con sdegno e sufficienza "quelli di Roma", gli "imboscati", accomunavano in un sol mucchio parlamentari e politicanti, o ricchi e rinunciatari. La loro posizione partitica era nella realtà dei fatti sfiducia tale e completa nei sistemi parlamentari e democratici. Lo spirito italiano, naturalmente portato allo scetticismo ed alla mancanza d'ideali, trovava nella nuova associazione un modo d'esprimersi nuovo, carico di pericoli per la democrazia. La maggior parte degli ex-combattenti era costituita da contadini, e costoro credevano programma della "terra ai contadini" che la propaganda di guerra aveva sventolato loro innanzi. In tutti comunque era latente l'esigenza d'ottenere una nuova giustizia sociale, l'esigenza che la guerra combattuta non fosse stata inutile, ma potesse servire ad un migliore futuro. Pareva a tutti impossibile che da tanti sacrifici e tanto sangue non dovesse scaturire qualcosa di nuovo, qualcosa di rivoluzionario, in ultima analisi un nuovo assetto della società. Non era nè possibile nè pensabile che tutto tornasse com'era prima. Nacque quindi dalla guerra una nuova classe politica: i combattenti, che ritenevano di avere diritto, secondo le promesse formulate da più parti nel corso della guerra, ad un trattamento privilegiato ed alla direzione politica della nazione. "Il combattentismo, era soprattutto uno stato d'animo, ma i movimenti combattentistici fecero della partecipazione alla guerra l'origine legittima del loro diritto al potere ed alla guida del paese rinnovato contro il mondo corrotto della borghesia conservatrice, dei socialisti neutralisti e spregiatori della nazione, contro i cattolici pacifisti e disfattisti, i pescecani, i politicanti. Se il combattentismo fu un fenomeno di rivolta contro l'ordine costituito, animato da una sincera volontà di rinnovamento, e nella sua vasta base popolare esprimeva soltanto l'aspirazione ad una più equa condizione sociale, negli strati della piccola borghesia intellettuale, che aveva fornito l'elemento ufficiale dell'esercito, il combattentismo fu interpretato come una nuova morale ed una nuova ideologia". Tra gli ex-combattenti si distinguevano gli "arditi". Essi avevano fatto parte di speciali reparti, addestrati all'assalto temerario e violento, con lo scopo di irrompere nelle trincee nemiche, aprirvi una breccia e permettere quindi alla restante truppa di conquistarle. Gli arditi, uomini audaci, sempre volontari, fisicamente selezionati, si erano distinti nel corso degli ultimi anni di guerra, per le innumerevoli prove di eroismo e lo sprezzo del pericolo. "Osservatori attenti non trascurarono di notare il pericolo che poteva scaturire dal trasferimento degli arditi dalla guerra alla vita politica. Educati da una disciplina rigida e disumana, dopo aver vissuto per anni lanciando fucilate e bombe a destra ed a sinistra, allegramente, cosa avrebbe fatto l'ardito in tempo di pace? (Ahimè - esclama Angelo Gatti - :io vedo già cosa potrà fare questa gente che non conosce più il valore della vita umana). Mussolini seppe comprendere subito l'importanza di attrarre nell'orbita del nascente fascismo gli ex-combattenti e gli arditi. Non a caso tra i fondatori del Partito Fascista era anche Marinetti, che oltre ai suoi meriti futuristi aveva anche quello d'essere uno dei capi deIl'arditismo; e non a caso Mussolini terminata la guerra, mutò il sottotitolo del suo quotidiano "Il Popolo d'ltalia" da "quotidiano socialista" in giornale "dei combattenti e dei produttori". Così nel '19 Mussolini parlava agli arditi agli ex-combattenti: "Ripetiamo che la parola fascista comprende anche gli Arditi e i Volontari di guerra, poichè le tre associazioni sono distinte nella forma, ma fuse e confuse nella sostanza si tratta di tre corpi Ie di un'anima sola". Gli arditi provenivano spesso dalle galere, dove stavano scontando condanne per reati comuni, spesso gravissimi; costoro erano stati graziati in tempo di guerra per essere inquadrati volontari nei reparti d'assalto. Tuttavia non tutti gli arditi provenivano dalla teppaglia e dalla delinquenza comune. Intellettuali, soprattutto di estrazione futurista, avevano trovato nel volontariato di questi reparti d'assalto, la realizzazione pratica dei loro ideali e della loro folle visione della vita. Comunque noi ci interessiamo tanto agli arditi perchè furono loro a fornire la base militare al nascente fascismo. Le "squadre d'azione", tristemente famose, e sulle cui imprese torneremo più avanti, trovarono proprio tra gli arditi i loro naturali gregari. Così Mario Carli, uno dei fondatori dell' arditismo insieme a Ferruccio Vecchi, sintetizzava le caratteristiche che l'ardito doveva possedere: "Spirito d'avventura e spirito di corpo. Guasconismo di fatti più che di parole. Romanticismo di uno sfondo nerissimo, sul quale guizzano muscolature da acrobata. Intellettualità assetata di gloria generosità capace di un'estetica raffinata. Mafia insolente del valore consapevole. Fusione perfetta di pensiero-bellezza-azione. Eleganza di un gesto primitivo, infantile, subito dopo un gesto di eroismo inverosimile. Tutti gli slanci, tutte le violenze, tutte le impennate di cui trabocca l'anima italiana. Aristocrazia, dunque, di carattere, di muscoli, di fede, di coraggio, di sangue, di cervello. Patrizi scesi da cavallo, aviatori scesi da velivoli, intellettuali usciti dalle ideologie, raffinati fuggiti dai salotti, mistici nauseati delle chiese, studenti ansiosi di vita, e giovinezza, giovinezza che vuoi tutto conquistare o tutto perdere, che vuol dare con pienezza, con salute, con energia i suoi diciannove anni generosi e innamorati d'Italia, di tutte le cose belle d'Italia, della bella terra, delle belle donne, delle belle città d'Italia, dell'avvenire d'Italia che intuiscono meraviglioso." Non fu quindi per semplice caso se l'inno goliardico degli arditi Giovinezza, Giovinezza, divenne l'inno del nuovo movimento fascista, che assimilò e fece propri gl'ideali di lotta, gli slanci eroici, il mito di pensiero-bellezzazione proprio dell'arditismo. Sicchè si univa in una strana mistura agli slanci romantici ed idealistici la violenza della teppaglia

6) NASCITA DEL MOVIMENTO FASCISTA

II 21 marzo del 1919 è la data nella quale ebbe inizio il movimento fascista (ancora non organizzato a partito). Esso iniziò come movimento a carattere locale e non nazionale: nacque infatti a Milano, come gruppo milanese, con la speranza di estendersi però in breve in tutta Italia. Mussolini che diventò sin dall'inizio il capo del neonato movimento, riunì appunto il 21 marzo i suoi amici deciso "a continuare all'interno la guerra combattuta contro il nemico esterno. In questo tema iniziale è contenuta tutta la storia posteriore del fascismo fino alla marcia su Roma e oltre guerra civile per la conquista del potere." Facevano parte di questo primo fascio milanese alcuni sindacalisti ed arditi, che dettero al nuovo movimento un'impronta particolare. Ricorderemo tra i primi componenti dei fasci milanesi Michele Bianchi, Mario Giampaoli, Ferruccio Vecchi, oltre a Filippo Tommaso Marinetti, presente in tutta la vita del nuovo movimento fascista. Tutti uomini provenienti dall'arditismo, ex-combattenti e futuristi. Il 23 marzo 1919 ci fu una riunione di questi primi e pochi componenti del fascismo in piazza San Sepolcro a Milano. In questa circostanza venne pubblicato il programma del nuovo movimento. Esso diceva italiani ecco il programma nazionale di un movimento sanamente italiano rivoluzionario perchè antidogmatico e antidemagogico; fortemente innovatore, perchè antipregiudizievole. Noi poniamo la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti. Gli altri problemi: burocrazia, amministrativi, giuridici, scolastici, coloniali ecc., li tracceremo quando avremo creato la classe dirigente. Per il problema politico: a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne. b) Il minimo di età per gli elettori abbassato ai 18 anni, quello per i deputati ai 25 anni. c ) L'abolizione del Senato. d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato. e) La formazione di Consigli nazionali tecnici del lavoro, dell'industria, dell'igiene sociale, delle comunicazioni ecc. eletti dalle collettività professionali e di mestiere, con poteri legislativl, e col diritto di eleggere un Commissario generale con poteri di Ministro. Per il problema sociale: Noi vogliamo a) La sollecita promulgazione di una Legge dello Stato che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore di lavoro. b) I minimi di paga. c) La partecipazione dei rappresentanto dei lavoratori al funzionamento tecnico delI'industria. d) L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente ) della gestione di industrie o servizi pubblici. e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti. f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sull'invalidità e sulla vecchiaia, abbassando il limite di età proposto attualmente da 65 anni a 55 anni. Per il problema militare: Noi vogliamo a) L'istituzione di una milizia nazionale, con brevi periodi d 'istruzione e compito esclusivamente difensivo. b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi. c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel mondo. Per il problema finanziario : Noi vogliamo a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze. b) Il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni e l'abolizione di tutte le mense vescovili, che costituiscono una enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi. c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell'85 per cento dei profitti di guerra."Si trattava quindi di un programma molto di sinistra, evidentemente Mussolini non riusciva ancora a dimenticare la sua matrice socialista, ed ancora i suoi ideali erano di un socialismo massimalista. Mussolini vagheggiava ancora ideali di socialismo integrale con una certa confusione d'idee piuttosto notevole. Ma ben sappiamo come le contraddizioni fossero sempre la nota saliente del suo pensiero. Questo programma venne comunque discusso per due giorni dai componenti il nucleo dei così detti "sansepolcristi". Secondo quanto riferisce lo stesso Mussolini esso venne sottoscritto da 54 persone, cioè poco meno della metà dei convenuti in Piazza San Sepolcro. Non si ebbe una pubblicazione formale con un comunicato ufficiale della riumone, tuttavia "Il Popolo d'Italia", che era il portavoce delle idee mussoliniane, pubblicò una serie di articoli, enunziando i vari postulati del programma, ed effettuandone un ampio commento. Ben presto Mussolini comprese la necessità di non cristallizzarsi in un preciso programma. In tal senso egli affermò il suo diritto di evitare pregiudiziali, essendo egli legato soltanto alla realtà del momento. In altri termini il suo pensiero incominciò ad essere antideologico, antintellettualista e di conseguenza pragmatista. 
In marzo si costituirono nuovi fasci a Genova, a Bergamo, Verona, Treviso, Napoli; nel successivo aprile a Pavia, Brescia, Cremona, Trieste, Parma, Bologna e Roma. A Bologna spiccava tra i fondatori dei fasci la personalità di Pietro Nenni; a Roma quella del Carli e del Bottai. Nel mese di maggio venne costituito il fascio di Firenze dagli studenti Dumini ed ltalo Balbo. Nel complesso i fasci riuscirono a diffondersi in tutt'Italia, anche se rimanevano molto lontani dalle speranze di Mussolini, che si era illuso di potere ottenere in due mesi migliaia di fasci in tutta Italia; è inoltre importante notare come a ciascun fascio aderissero soltanto piccoli nuclei di uomini, una vera aristocrazia che non faceva di certo sperare in un successo di massa
Picture

7) LA CONFERENZA PER LA PACE

Il 18 gennaio 1919 era iniziata ufficialmente la conferenza per la pace a Parigi presso Versailles. Essa, presieduta da Clemenceau, inizialmente vide la partecipazione di dieci membri, cioè i capi di governo, i ministri degli Esteri degli Stati Uniti d' America, della Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone. In seguito, escluso il Giappone, la conferenza continuò con i cosìddetti quattro "grandi", ed esattamente Nilson per gli Stati Uniti, Lloyd George per l'Inghilterra, Clemenceau per la Francia, Orlando per l'Italia. Nel corso della prima fase della conferenza, i delegati si occuparono soprattutto di dare uno statuto alla Lega delle Nazioni, argomento questo che stava particolarmente a cuore a Wilson, ed inoltre essi si occupaarono della sistemazione delle questioni tedesche, apertesi nei territori occupati. Nel corso di questa prima fase della conferenza la partecipazione italiana fu molto scarsa, sicchè gli alleati ne trassero l'opinione che l'italiani avevano degli interessi molto limitati e non collaboravano alla totale, completa e definitiva soluzione dei problemi posti dalla pace. Già l'11 febbraio il nuovo governo jugoslavo aveva presentato delle memorie, richiedendo che i confini del nuovo stato jugoslavo fossero fissati verso l'Italia all'altezza del fiume Isonzo. La proposta venne subito respinta daII'Italia, che, si rifiutò di riconoscere, con atteggiamento mancante di realismo politico, l'esistenza stessa della Jugoslavia come nuova entità politica. Eppure proprio l'Italia, ed in particolare il governo Orlando, aveva dato inizialmente alla nascente nuova nazionalità slava tutto il suo appoggio. La Jugoslavia propose allora che per derimere la controversia con l'Italia fungesse da arbitro il presidente americano Wilson. Ciò voleva dire menomare la posizione dell'Italia come grande potenza, sicchè, giustamente, il ministro Sidney Sonnino respinse la proposta. Wilson, il quale si dava arie da oracolo e da gran saggio, e che già aveva manifestato in più occasioni la sua antipatia per le richieste itaIiane, che a lui sembravano contrarie allo spirito della Lega delle Nazioni ed ai suoi 14 punti, in particolare contrarie al criterio di nazionalità che doveva sovvenire alla nuova sistemazione delle frontiere, se ne adombrò e di certo non perdonò all'Italia di avere respinto il suo "superiore" giudizio. Per altro i consiglieri di Wilson pensavano che l'Istria orientale dovesse essere assegnata alla Jugoslavia, così anche Fiume e tutta la Dalmazia e le isole antistanti. A questo punto si cercò un compromesso: ma gli animi erano troppo tesi perchè effettivamente si potesse addivenire ad un qualche accordo. "Orlando minacciò la rottura dell'alleanza in caso di mancata applicazione del Patto di Londra: dietro a delegazione italiana battevano pressioni economiche, militari e nazionaliste, che andavano assai al di là della questione adriatica, ma che su questa facevano perno e resitenza. D'altra parte non minori interessi muovevano le opposizioni delle potenze dell' Intesa: per la Francia era in questione tutta la sua politica continentale ed europea, balcanica e danubiana, di successione alla Germania vinta e quindi anche di affermazione nel Mediterraneo orientale." Il contrasto nell'ambito del consiglio della Conferenza si fece sempre più aspro e ciò in quanto gl'italiani consideravano i croati e gli sIoveni, i più direttamente interessati contro l'ltalia, come ex-nemici, infatti essi avevano combattuto contro gl'italiam con particolare acredine e vero odio nell'esercito austro-ungarico. Invece gli americani, gl'inglesi ed i francesi, pur non riconoscendo ufficialmente ancora il nuovo stato jugoslavo, li mettevano sullo stesso piano dei fedeli alleati serbi. " Al Consiglio dei Quattro, Orlando, su invitp di Lloyd Gearge e Clemenceau, fece il 3 aprile una esposizione sommaria del punto di vista italiano nei riguardi di Fiume iI Trattato di Londra era stato un compromesso; Fiume non era stata allora richiesta dall'Italia perchè non si prevedeva la scomparsa delI' Austria-Ungheria; adesso, per ragioni di nazionalità, con cui si accordavano quelle economiche, era grusto darla all'Italia. Wilson, invece sostenne che si doveva farne ma città libera. Trascorsa più di una settimana, Orlando, nelle sedute del Consiglio dei Quattro dell'11, 12 e 13 aprile, fece premura perchè si affrontassero a fondo le questioni italiane: in Italia (egli disse) non sarebbe compreso che le conversazioni con i tedeschi si iniziassero senza un accordo di massima sulle questioni italiane : si sarebbe avuta l'impressione di una pace separata." Si giunse così dopo infruttuose trattative alla seduta del giorno 19, interamente dedicata alle questioni italiane. Orlando chiarì che intendeva risolvere il problema in base ai principi già applicati in analoghi casi. Egli quindi richiese che l'Italia potesse avere frontiere naturali. Chiedeva quindi l'annessione all'Italia di tutti i territori già del disciolto impero austro-ungarico, situati entro le frontiere naturali italiane; Fiume, città, ch'egli riteneva italiana, le isole dalmate, il settentrione della Dalmazia, non soltanto per il criterio della nazionalità, che spesso in effetti non era favorevole all'Italia, bensì anche per necessità strategiche e storiche. Il presidente Wilson, che era il vero e tenace oppositore delle aspirazioni italiane, accettò il principio enunciato da Orlando, di adottare anche alla questione italiana gli stessi principi che già erano serviti per risolvere altre questioni territoriali. Accettò quindi tutto il confine alpino settentrionale italiano, compreso il Tirolo di lingua tedesca, che avrebbe dovuto essere rifiutato dall'Italia per questioni di nazionalità, ma che tuttavia per ragioni strategiche venne riconosciuto all'Italia; inoltre accettò la cessione di Trieste e di gran parte dell'Istria; invece si oppose alla richiesta italiana tendente ad ottenere tutta l'Istria e la città di Fiume, la cui maggioranza della popolazione era slava e non italiana, anche se gl'italiani avevano sempre ricoperto i posti di maggiore responsabilità nell'ambito dell'amministrazione della città. Gl'italiani a questo punto prospettarono le loro difficoltà interne: sarebbe stato impensabile presentarsi innanzi al popolo italiano, rinunziando a Fiume ed a buona parte della Dalmazia. Ciò sarebbe equivalso a rinunziare ai veri fini per i quali era stata combattuta la guerra dal nostro popolo. Soprattutto Sonnino sentiva il rimorso di avere spinto il proprio paese verso una guerra sanguinosissima per risultati così modesti. Malgrado le lamentele degl'italiani, il presidente americano Wilson rimase irremovibile egli non intendeva affatto accettare il Patto di Londra, che non legava gli Stati Uniti d' America, che non l'avevano mai sottoscritto. Dal loro canto gl'inglesi ed i francesi confermarono invece la loro intenzione di attenersi al patto di Londra, ed aggiungevano che proprio in base ad esso, rifiutavano Fiume all'Italia, non essendo detta città compresa fra i territori che avrebbero dovuto diventare di dominio italiano. Lo stesso giorno 19 Orlando minacciò di abbandonare la conferenza; gli alleati lo sconsigliarono facendogli presente come sarebbe stato un gravissimo errore spezzare un'alleanza che era durata per anni in momenti ben più difficile degli attuali. Si continuarono quindi le trattative in modo rigido senza che da una parte e dall'altra si avesse la minima intenzione di cedere su qualche punto e quindi di transigere. A questo punto vi fu una riunione tra Loyd George, Wilson ed Orlando e si tentò un compromesso, fondato su Fiume, Sebenico, Zara, città libere; le isole all'Italia ed il resto della Dalmazia alla Jugoslavia. Si era insomma incamminati sulla strada del trattato di Rapallo. Ma Wilson era sempre più inasprito da Sonnino, impensierito inoltre di restare eventualmente isolato, incitando gli altri alleati, cioè inglesi e francesi, a legare qualsivoglia valore al patto di Londra; temeva che gli slavi, non soddisfatti dalle offerte occidentali si gettassero fra le braccia della Russia; temeva che l'opinione pubblica americana disapprovasse il suo comportamento alla Conferenza per la pace di Versailles. A questo punto fu chiaro vhe gli Stati Uniti avrebbero fatto ricorso al ricatto economico pur di giungere alla pace nei termini ch'essi pretendevano d'ottenere. Inglesi e francesi compresero che senza l'aiuto economico americano, le loro economie, sconquassate dalla guerra, avrebbero incontrato gravissimi problemi per risollevarsi, ed a questo punto abbandonarono del tutto l'Italia, non senza far presente anche al presidente Orlando la gravità della situazione economica, che si sarebbe creata in Italia, qualora gli Stati Uniti avessero del tutto interrotto i loro aiuti all'Italia. Nella realtà dei fatti si erano incontrati quattro statisti assolutamente impreparati. Uomini d'idee ristrette, legati a necessità di propaganda elettorale, e costoro crearono, senza averne consapevolezza, la difficile situazione nella quale sarebbe maturato il germe del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Il giorno 23 aprile Wilson fece pubblicare un suo manifesto, con il quale si rivolgeva direttamente al popolo italiano. E' inutile sottolineare l'indelicatezza, l'inopportunità, la scarsa sensibilità politica di Wilson in questa occasione. Egli aveva già dato prova di queste sue scarse capacità politiche, quando, venendo in visita ufficiale in Italia, si era incontrato con Bissolati, che sapeva ministro dimissionario per l'insanabile dissidio con il governo italiano. Orbene nuovamente la storia si ripeteva: mentre si svolgevano trattative al massimo livello per la pace, Wilson decideva di scavalcare i legittimi governanti italiani e di parlare direttamente al popolo, sperando chiaramente di riuscire clamorosamente a provocare la caduta del governo Orlando e la sostituzione dei governanti italiani con altri più duttili e più propensi ad accettare il suo parere. In questo manifesto Wilson si rivolgeva al popolo italiano, enunciando, nuovamente i suoi principi, già ben noti, e di conseguenza in base ad essi, determinava i confini ch'egli riteneva giusti tra Italia e Jugoslavia. Nel complesso il tono del manifesto era pacato e senza eccessi, tuttavia esso suscitò in Italia un'ondata di sdegno senza precedenti Wilson che era stata forse la persona più popolare in Italia, venne adesso sbeffeggiato ed insultato e l'odio popolare fu pari all'amore di cui era stato in precedenza oggetto. Il giorno seguente Orlando si affrettò a far pubblicare un contromanifesto, con esso rivelava i retroscena delle trattative e poneva inoltre l'accento circa il modo strano di agire di Wilson, che intendeva contrapporre il popolo italiano al suo legittimo governo, scavalcando i normali canali diplomatici. Orlando ribadiva la giustizia di tutte le rivendicazioni italiane, fatte nello spirito del trattato di Londra, per il quale il popolo italiano tutto aveva combattuto. Anche questo contromanifesto italiano era abbastanza amichevole. Ancora il 24 si riunirono i quattro grandi e si cercò ancora una volta di giungere ad un compromesso. Ma Wilson con il suo attegglamento rigido, ed Orlando con la sua intransigenza fecero fallire qualsiasi possibilità di dialogo e di trattativa. Senz'altro i risultati diplomatici ottenuti a Rapallo nel novembre del 1920, avrebbero potuto essere conclusi già nell'aprile del'19, evitando quell'ondata di odio e di nazionalismo, che investì il nostro Paese. Senza rendersene conto, Wilson ed Orlando facilitarono in vario modo l'ascesa del nuovo fascismo nazionale. Il 24 sera stesso Orlando abbandonò la conferenza: egli disse di allontanarsi, non per rompere qualsiasi rapporto con gli alleati, ma per riprendere contatto con il suo popolo, e per verificare l'aderenza delle idee del governo a quelle delle masse popolari. Sonnino invece, che insisteva perchè si continuassero le trattative, rimase a Versailles sino al 26. Ma alla fine anch'egli, dovette seguire il suo capo del governo, facendo il suo rientro in Italia.

8) IL RITORNO DI ORLANDO E SONNINO IN ITALIA

Il 24 aprile Orlando abbandonò la Conferenza di Versailles e partì per l'ltalia; due giorni dopo lo seguiva anche Sonnino. Dal momento in cui Orlando giunse in territorio italiano, sino a Roma, egli venne salutato da dimostrazioni popolari in tutto il Paese il popolo dimostrava così la sua fiducia nei confronti del Governo, mentre spesso si avevano atti ostili contro il presidente americano Wilson, la cui popolarità in Italia era giunta al minimo. Si era creato in tutto il paese un clima di fittizia solidarietà nazionaIe, che ricordava quello già avutosi nell'anteguerra, quando gl'interventisti avevano avuto il sopravvento ed avevano, tramite i movimenti di piazza, spinto il Paese verso la guerra. Grandi manifestazioni con concorso di popolo si susseguivano un po' ovunque, a sottolineare questa solidarietà con le idee e il Governo italiano. Giornali e politici fecero a gara a spendere la loro spesso vana oratoria contro la congiura alleata ai danni dell'Italia. Si creava pian piano quella mentalità da nazione sconfitta, che avrebbe poi seguito per anni la vita nazionale italiana. Tutti fecero a gara a sostenere le rivendicazioni italiane, e ad affermare l'assoluta volontà che Fiume fosse italiana, dovesse anche costare una nuova guerra. A tanto erano giunti gli animi esacerbati dalla delusione ed esagitati dalla propaganda della stampa nazionalista e fascista Mussolini non perdette l'occasione per far sfoggio della sua magniloquenza violenta e sovversiva e per rinfocolare il malcontento che serpeggiava nella nazione intera il Popolo d'ltalia pubblicò in proposito il seguente articolo di Mussolini: "Alla vigilia e alla partenza dei nostri plenipotenziari da Parigi, la situazione era questa: Wilson ci legava la Dalmazia, Fiume e metà dell'Istria. Gli alleati inglesi e francesi ci ponevano un aut aut presso a poco in questi termini: Patto di Londra senza Fiume, o Fiume con la rescissione del Patto di Londra. Le rinuncie dalmatiche dei nostri plenipotenziari furono grandissime, ma ciò maIgrado non fu possibile l'accordo nemmeno tra Italia, Francia e Inghilterra... Questa la situazione... La seduta storica non l'ha modificata affatto... Come e perchè avviene che la Francia e l'Inghilterra non abbiano invitato l'Italia a riprendere il suo posto alla conferenza di Parigi? Come e perchè avviene che Francia, Inghilterra e Stati Uniti, abbiano già preso contatto coi plenipotenziari tedeschi - sia pure per un contatto preliminare e protocollare - senza curarsi in alcun modo dell'assenza dell'Italia? Tutto ciò significa che Francia e Inghilterra non si sono mosse dalle posizioni diplomatiche fissate alla vigilia della partenza di Orlando e Sonnino. Se Francia e Inghilterra premendo su Wilson, il quale si rimangia allegramente i suoi 14 punti salvo quand'è in gioco il diritto dell'Italia, o anche al di sopra e contro Wilson, fossero entrate nell'ordine d'idee di dare all'Italia Fiume più il Patto di Londra a quest'ora i delegati sarebbero tornati a Parigi e l'incidente sarebbe liquidato. Evidentemente, tanto la Francia come l'Inghilterra, si attengono ancora alla soluzione che potremmo chiamare "minimalista " dei nostri problemi adriatici, soluzione che se dobbiamo aver avuto ragione di respingere prima, più forte ragione dobbiamo respingere oggi, dopo lo spettacolo dell'unanimità nazionale. Insomma: se gli alleati non ci danno Fiume più il Patto di Londra, l'Italia non può tornare a Parigi... E se non tornando l'Italia a Parigi gli alleati procedono come sembra - per loro conto, attuando un vecchio progetto che è quello di fare la pace in due tempi, prima con la Germania, e poi con l'Austria-Ungheria l'Italia è in diritto di diffidare gli alleati... perchè procedono a una pace separata, è da ritenere "nuIla " la pace stessa e di effettuare l'annessione delle terre che sono nostre. Noi cominciamo a credere che se l'ltalia avesse decretato l'annessione, a quest'ora sarebbe precipitosamente giunto a Roma l' invito a tornare a Parigi. Crediamo ancora che l'idea dell'annessione non è più respinta "in assoluto" dal Governo." Ciò che maggiormente ci interessa in questo momento è notare come Orlando, senza averne consapevolezza, inaugurasse durante il suo viaggio di ritorno in Italia, una nuova prassi, che poi il fascismo riprenderà e farà sua, cioè il colloquio tra popolo e leader politico. Orlando infatti chiedeva alle masse, venute ad accoglierlo, se approvavano il suo operato e le rivendicazioni italiane; ed il popolo in coro rispondeva di approvare. Seguivano quindi scene di commozione e di isterismo collettivo; tutto ciò verrà ripetuto in modo perfezionato nel corso del ventennio fascista. Il fascismo, conquistato il Potere, cercherà di avallare con queste manifestazioni popolari il suo operato, dando ad esse valore di plebiscito popolare. Il clima nazionale divenne pian piano sempre più isterico; sobillato da comizi nazionalisti e fascisti, un po' in tutta Italia, il popolo italiano sembrò pronto a tutto pur di ottenere la concessione di quanto veniva chiesto dal suo legittimo Governo. A Milano si ebbe un grande comizio fascista al Teatro Dal Verme; a Roma si svolse un Corteo popolare, capeggiato dal sindaco principe Colonna al Campidoglio; ed altri infiniti discorsi furono tenuti da Sem Benelli, D'Annunzio, e da esponenti nazionalisti e fascisti un po' ovunque." II 26 aprile il Consiglio nazionale di Fiume - di cui Wilson contestava la regolarità democratica e il valore rappresentativo aveva fatto giuramento di far rispettare "fino all'estremo" la sua volontà di unione d'Italia, e deliberato di rimettere i poteri statali al generale Grazioli, capo del corpo interalleato di occupazione, perchè l'assumesse in nome dell'ltalia. Il generale non li accettò, ma riferì il voto fiumana a Roma. Erano manifestazioni e atti ricordanti le annessioni dell'ltalia centrale nel 1859-60; ma questa volta, al posto del benevolo Napoleone III, c'erano le tre maggiori Potenze vincitrici, regolanti le sorti europee." Il 29 aprile si riunì la Camera; Orlando in tono molto moderato espose i termini della diisputa parigina e le controproposte avanzate dagli alleati; tutto il Parlamento votò a favore del Governo, anche se non era affatto chiaro quale dovesse essere il comportamento futuro del governo italiano per risolvere la controversia. Unica voce di dissenso nel Parlamento fu quella socialista. Questi, soprattutto per bocca di Turati, chiesero al governo una maggiore responsabilità negli atti che compiva. Disse testualmente Turati: " A che pro, questa enorme montatura dell'opinione e del paese?.. O voi non siete certi del risultato, e allora la montatura, che avete provocato, vi fa prigionieri di sè, vi taglia ogni via di ritorno, che non sia di umiliazione profonda... Potevate dirci: "AI vostro buon volere fallì la fortuna. Siamo vincolati da troppi precedenti. Non possiamo con dignità ritornare a Parigi. Lasciamo il posto a chi avrà le mani più libere e potrà ripigliare con miglior fortuna le trattative, per noi rotte o interrotte"... Un profondo rispetto avrebbe accolto le parole e il gesto. Ma voi vi fate piedistallo del vostro insuccesso. Voi legate ad esso la vita del paese: voi provocate la solidarietà del Paese con voi, sino alle estreme conseguenze, fino ... alla guerra." Frattanto a Parigi gli alleati procedevano alla sistemazione di tutte le questioni pendenti anche in assenza dell'Italia. Il calcolo la previsione, secondo il quale, gli alleati si sarebbero affrettati a richiamare gli italiani a Parigi per proseguire le trattative per la pace, si rivelarono errati. Gli italiani comunque non si erano allontanati dalla Conferenza rompendo le relazioni con i loro alleati, bensì avevano chiesto di assentarsi al fine di riprendere contatto col popolo e rendersi conto sino a qual punto esso condivideva le loro opinioni e le loro richieste. Sarebbe quindi stato semplice per Orlando e Sonnino, verificata la rispondenza d'idee, rientrare a Parigi, riprendendo il posto che ci spettava al tavolo della pace. Invece adesso ci s'intestardì a restare a Roma, attendendo una chiamata, che non giunse mai. In assenza dell'Italia gli alleati presero una serie di decisioni, che talvolta ledevano i nostri interessi. Gli alleati erano per altro molto imbarazzati dal Patto di Londra: inglesi e francesi temevano che l'Italia tornasse in qualsivoglia momento alla Conferenza, chiedendo la pura e semplice esecuzione del Patto. Questa legittima richiesta avrebbe messo in gravissime difficoltà Francia ed Inghilterra, che avevano sottoscritto il Patto. Wilson invece istigava Francia ed Inghilterra a negare qualsivoglia validità al Patto di Londra, che ledeva gli interessi del loro nuovo alleato, e che non era stato accettato dagli Stati Uniti. Venne a questo punto a configurarsi l'idea degli alleati, che, essendo l'Italia volontariamente assente dalla Conferenza di pace, veniva a decadere il Patto di Londra per inadempienza da parte italiana ed in tal senso si andò preparando una dichiarazione di decadenza del Patto stesso. Lloyd George e Clemenceau verbalmente fecero delle anticipazioni in tal senso ai nostri ambasciatori Imperiali e Bonin Longare; questi si affrettarono ad avvertire il Governo italiano di quanto si stava tramando ai suoi danni. Queste ultime comunicazioni del nostro corpo diplomatico dovettero finalmente far comprendere ad Orlando e Sonnino che vana era la loro illusione di essere chiamati a Parigi a riprendere il loro posto alla Conferenza per la pace, e che le conseguenze per l'Italia sarebbero state gravissime, comportando la decadenza del Patto di Londra. A questo punto il Governo si ricordò il motivo per il quale esso era tornato in Italia: cioè per verificare se il popolo appoggiava o meno le richieste dei suoi legittimi rappresentanti. Sicchè il 4 maggio venne mandato un telegramma ai nostri diplomatici, informandoli dell'imminente ritorno della nostra delegazione a Parigi. Frattanto il clima di tensione in Italia non tendeva a calmarsi, e l'ltalia acquisiva sempre più la psicologia della nazione sconfitta. Lo stesso 4 maggio si era svolta una grande manifestazione a Roma con l'intervento di D'Annunzio, ed in quella circostanza il Poeta aveva declamato l'assoluta necessità per l'Italia di non tornare a Parigi se non invitati, ciò per non perdere l'onore. Ventiquattrore più tardi il nostro Governo riprendeva il treno per riprendere il posto abbandonato a Parigi. Non fu tuttavia innocua per la democrazia italiana questa bagarre di sentimenti nazionalistici, agitati con veemenza. Si andarono creando oscure trame, che infiltrandosi nell'esercito avrebbero di lì a poco consentito l'impresa di Fiume e poi la successiva marcia su Roma. Capi riconosciuti dei movimenti nazionalistici erano D'Annunzio e Benelli; Mussolini restava ancora una personalità di secondo piano, anche se non perdeva occasione per mettersi in mostra per cercare di guadagnar spazio. Di Mussolini era il consiglio di procedere alI'annessione di Fiume; egli fu profeta; la congiura militare di lì a poco consentirà l'impresa di D'Annunzio. Molto attivi alle numerose manifestazioni di piazza furono i vari fasci di combattimento ed i nazionalisti: per cui si andava creando un vincolo sempre più profondo tra fascisti e nazionalisti, questi ultimi legati alle alte gerarchie dell'esercito, che ormai congiuravano ai danni dello stato legalitario.

9) CONTINUA LA CONFERENZA PER LA PACE

Il 7 maggio mattina Orlando rientrò alla Conferenza di pace a Parigi. Egli giunse appena in tempo per assistere nel corso del pomeriggio alla consegna delle condizioni di pace ai delegati tedeschi. "Da tutto quello che è stato detto e scritto, e dato il silenzio dei nostri delegati (chi tace, in questo caso, sembra proprio confermare) - risulta che gli on. Orlando e Sonnino non hanno ricevuto nessun invito da parte dei tre. O se invito c'è stato, ha avuto la forma di una intimidazione. Quei signori di Francia ed Inghilterra e degli Stati Uniti, devono aver tenuto, a mezzo dei loro ambasciatori, questo discorso: Signori delegati italiani, vi avvertiamo che il giorno tale all'ora tale sarà consegnato il trattato di pace ai rappresentanti della Germania. Se ci sarete, bene; se non ci sarete, avrete torto, perchè non dilazioneremo la consegna e procederemo anche se sarete assenti. Davanti a questo invito-ultimatum, contornato da qualcuna delle solite frasi saccarinate che danno la nausea, è chiaro che ai nostri delegati, non rimaneva che prendere il treno per Parigi. Dopo 15 giorni dalla famosa rottura, la nostra diplomazia è ancora sul binario morto. Nessuna novità in vista, in senso positivo, ma molte novità in senso negativo. Poichè era stato già preparato il testo del progetto di trattato di pace con la Germania, ed in esso si faceva cenno all'Italia, gli alleati volevano inserire il nome della nostra nazione a penna, mentre tutto il rimanente testo era a stampa. Dovette intervenire il nostro ambasciatore Crespi, il quale, minacciando uno scandalo, ottenne la ristampa cmpleta del preambolo ed in tal modo anche il nome "Italia" comparve a stampa e così si potè almeno salvare la faccia. Seguirono quindi alla consegna del progetto di trattato lunghe discussioni con gli alleati tedeschi. A queste, Orlando partecipò in modo molto scarso, soprattutto nel corso dei primi giorni, visse in uno stato di completo isolamento, quasi tollerato dai restanti delegati delle grandi potenze. Frattanto si cercò di giungere ad un qualche compromesso circa il confine tra Italia e Jugoslavia. Vi furono diversi tentativi di compromesso: il così detto progetto Miller, che prevedeva Fiume indipendente col porto libero sotto la protezione della Società delle Nazioni; la Dalmazia interamente alla Jugoslavia; Zara e Sebenico all'ltalia come porti liberi; le isole quasi tutte all'Italia. Ma Wilson ormai era convinto di non dover cedere nessun territorio all'Italia rispetto alla linea da lui già tracciata in Istria, sicchè respinse anche questa proposta, che, per allora era ritenuta anche da Orlando inaccettabile. In prosieguo di tempo sembrò che si potesse giungere ad un accordo sulla questione dalmata, in base al così detto pianoi Tardieu, accettato in linea di massima dall'Italia, ma respinto da Wilson con una rigidità incomprensibile. Secondo questo compromesso si sarebbe avuto: Fiume, stato libero sotto la garanzia degli alleati; Zara e Sebenico e quasi tutte le isole all'Italia. Ma Wilson non accettò neanche questo piano affermando che l'lstria orientale doveva rimanere agli jugoslavi. Così non si giunse ad alcun compromesso per cui la questione adriatica venne monentaneamente accantonata. Altre difficoltà si ebbero per l'Asia Minore. In base all'art. 9 del Patto di Londra era abolito il diritto dell'Italia di ottenere una parte della regione mediterranea nel pressi della provincia di Adalia. Questa disposizione era stata ribadita da un accordo franco-italo-britannico del 1917 e per esso era stata attribuita all'Italia in amministrazione tutta I'Anatolia meridionale, includendovi anche Smirne. Il Patto di Londra affermava che la zona d'influenza italiana sarebbe stata assegnata con il consenso della Russia. Essendo con la rivoluzione cambiata del tutto la forma di governo in Russia, questo consenso non si ebbe; da ciò i governi di Francia ed Inghilterra traevano la convinzione che gli accordi precedenti dovessero essere denunziati e dovessero essere dichiarati decaduti. L'Italia riteneva invece che gli accordi fossero pienamente validi in quanto il consenso della Russia non poteva giungere per il cambiamento della forma istituzionale dello stato russo, ma tuttavia detti accordi vincolavano francesi ed inglesi. In Anatolia era concorrente dell'Italia la Grecia, e Lloyd George, ellenofilo all'eccesso, si dimostrò ben disposto ad accogliere le richieste della Grecia di Venizelos a danno dell'Italia. Ai primi di maggio, assenti i delegati italiani, i tre grandi attribuirono la sovranità di Smirne alla Grecia, senza neppure informare tempestivamente il nostra Governo. Essi affermarono che l'ltalia si era resa indegna di governare Smirne, avendo commesso atti brutali contro la popolazione, che aveva proclamato la sua fedeIltà alla Grecia. Questa affermazione si è dimostrata del tutto falsa, e semmai, se atti brutali vennero commessi, questi furono commessi dai Greci contro quegli abitanti riottosi ad accettare il loro governo. Le trattative per la pace a Parigi quindi, assente l'ltalia, si trascinarono stancamente tra mille piccole ripicche, senza che nessuno avesse una chiara visione dei problemi posti dalla pace nel mondo. Quale meraviglia quindi se di lì a pochi anni scoppiò la seconda guerra mondiale? Già nel trattato di pace di Versailles erano contenuti i germi della futura discordia, che avrebbe provocato il secondo conflitto mondiale. Anche per quanto riguarda le questioni relative alle colonie, le aspirazioni italiane vennero gravemente deluse. L'Italia sperava di ottenere il congiungimento dell'Eritrea e della Somalia, assorbendo la Somalia francese e quella britannica. Inoltre l'Italia sperava ad una possibile espansione della sua influenza verso l'Etiopia. Ma dello stesso parere non furono i francesi, gl'inglesi e gli statunitensi, che, dopo essersi spartite tutte le ex-colonie tedesche, rimandarono ad altro momento l'esame dei compensi che per il Patto di Londra sarebbero spettati all'Italia. Alcuni giorni prima che gli italiani ritornassero alla Conferenza essi procedettero alIa spartizione delle ex colonie, senza contare il loro alleato. "II ritorno di Orlando e Sonnino a Parigi riuscì quasi del tutto infruttuoso: fu risolta a nostro favore la questione della ripartizione della flotta mercantile austriaca. Tuttavia, il ritorno evitò una rottura con gli alleato che sarebbe riuscita sommamente pregiudizievole, e non per noi soltanto; e mantenne una piattaforma per un'intesa futura. L'ultima proposta, riguardante le rivendicazioni dalmatiche dell'Italia, si ebbe il 7 giugno con il così detto memorandum Wilson. Questo documento, attentamente esaminato dagl'italiani, fu respinto poichè le condizioni formulate da Wilson, peggioravano quelle comprese nel progetto Tardieu, che gli italiani già ritenevano il massimo delle concessioni ch'essi potevano fare sulla questione adriatica. Così lo stesso Vittorio Emanuele Orlando ci dà notizia delle proposte del presidente americano: "Wilson consentiva il confine italiano a Punta Fianona, seguendo la linea del Monte Maggiore; creava lo stato intermedio, non da Volosca, come nel progetto Tardieu e, quindi, senza più la continuità fisica dell'Italia con Fiume, e prolungava poi per le Alpi i confini di questo nuovo Stato fino ad includervi Idria e Adelberg, consentiva il plebiscito non per le zone ma globale, ci dava le essenziali isole strategiche, quella mirabile, direi, controfedera della sponda orientale dell'Adriatico, che comincia dal gruppo di Lussino scende giù per l'Isola Grossa coI dedalo delle isole fra Zara e Sebenico e, attraverso la costa, dà la mano a Lissa, col magnifico porto Tailor, ed infine di Zara faceva una città libera, ma affidandone all'ltalia ogni rapporto con l'estero." Il 2 giugno Orlando e Aldrovandi ritornarono a Roma. Le trattative con gli alleati erano definitivamente fallite. Giustamente Orlando temeva che l'esito sfavorevole del negoziato di pace avesse delle ripercussioni alla Camera, nei confronti del suo Governo. Ed in effetti avvenne proprio che il 19 giugno 1919, la Camera votasse contro il Governo Orlando-Sonnino, facendolo cadere e dando vita ad un nuovo Governo, presieduto da Nitti e con il nuovo ministro degli Esteri Tittoni. Così Mussolini si esprimeva a proposito della Conferenza di pace a Parigi. Il suo attacco era rivolto particolarmente contro Orlando e trovava toni pugnaci, e nel contempo volgari: "Quel gruppo di uomini, appestati e sifilizzati di parlamentarismo, molti dei quali appartengono per temperamento e per idee alla malfamata tribù giolittiana, e che oggi hanno nelle mani arteriosclerotizzate i destini d'Italia, quel gruppo di uomini che si chiamano ministri, non meriItano altra definizione se non questa: di bastardi, di deficienti, di mistificatori e tutto ciò al superlativo per quel che riguarda il loro capo che si diverte a Parigi, in quel covo di damazze equivoche, di funzionari perditempo e di giornalisti sbafatori che è I'Eduardo VII". E' destino triste che la dignità d'ltalia sia andata a naufragare in un albergo dei boulevards. Dal Grappa, dal San Michele, dal Carso, dal Monte Santo, dal Col di Lana, all' "Eduardo VII", quale salto quale abisso! L'uomo che ebbe gran parte di responsabilità nella Caporetto militare, sta preparando, incoscientemente perchè si tratta di un rammollito che si tira innanzi a furia di zabaglioni concentrati, la Caporetto diplomatica per l'Italia... Quel governo che non ha voluto l'annessione, perchè tra la volontà del popolo italiano, chiaramente espressa, e quella delle potenze straniere, quest'ultima - sola - vale, sta esaurendosi oggi nelle interminabili discussioni parigine le non hanno una fine per la semplice ragione che non hanno mai avuto un principio. Il popolo ignora. Da due mesi, ormai, è tenuto all'oscuro. Di quando in quando un comunicato ufficiale di venti righe è ciò che dà da leggere agI'italiani. Di solido, non c'è niente. L'on. Orlando, anima di avvocato e di deputato, che non ha sentito la guerra, non solo perchè non l'ha fatta, ma perchè è rimasta fondamentalmente estranea al suo spirito "cattedratico" e professorale, non comprende che la lunga e inutile contrattazione di Parigi è l'assassinio vero e proprio dell'onore d'Italia." 

10) NASCITA DELLO SQUADRISMO

Sino a questo momento i fasci avevano rispettato la legalità ed il loro comportamento era stato perfettamente democratico. Ciò consente di comprendere il perchè dell'adesione al primo fascismo di personalità d'indiscusso spirito democratico, quali dd esempio Nenni. I partiti più importanti della nazione, cioè il socialista, il repubblicano ed il nuovo partito popolare, tennero dei contatti con il nuovo movimento fascista, cercando di ottenerne l'appoggio almeno per quanto riguardava la proporzionale alle elezioni, che, come ricorderemo, era tra i programmi più immediati nel nuovo movimento politico. Sino al 15 aprile 1919, il fascismo di Mussolini non aveva compiuto nessuna azione di carattere squadrista e violento. Praticamente della sua nascita non s'era ancora accorto nessuno. Ma il 15 aprile avvenne qualcosa che mutò radicalmente l'indirizzo pacifico del movimento, determinandone quel carattere sopraffattorio e violento, che lo avrebbe poi per sempre contraddistinto. Il 15 aprile c'era stato a Milano uno sciopero generale di protesta per l'uccisione, avvenuta il precedente giorno 13, di alcuni dimostranti nel corso di una manifestazione. Lo sciopero si era svolto in modo calmo ed ordinato sino al tardo pomeriggio, quando gli scioperanti deliberarono di riprendere il lavoro all'indomani. Contemporaneamente si formò in piazza del Duomo a Milano una controdimostrazione, ed una notevole massa di controdimostranti, formata da fascisti, si scontrò con una colonna di anarchici che stava ritornando dal comizio, e che non ava accettato la proposta di ritornare il giorno seguente al lavoro. Nacque un grave conflitto tra queste due colonne di folla con alcuni morti. Per rappresaglia una colonna di manifestanti fascisti, costituita soprattutto da arditi, ufficiali in servizio ed in congedo, studenti, futuristi, attaccò la sede dell'"Avanti" in via San Damiano, la invase, distruggendola completamente ed infine la incendiò. Il grave fatto poteva rimanere di per se stesso senza grandi conseguenze, ma Mussolini nei giorni successivi si vantò del delitto e rivendicò per i fascisti la responsabilità e l'"onore" della distruzione della sede dell'"Avanti", e ci tenne a far notare che quando era avvenuto era dovuto all'impeto delle squadre fasciste. Egli intuì in quell'istante la possibilità che si aprivano al suo movimento se avesse condotto la lotta armata contro i poteri costituiti dello stato. La lotta passava dal campo dialettico e democratico alla piazza ed alle armi. L'episodio, infatti, se si esclude quanto era già avvenuto al Teatro alla Scala contro Bissolati, dove tuttavia non si era dato sfogo a violenze fisiche, assunse un aspetto particolare perchè per la prima volta un esponente politico rivendicava la paternità di un delitto, e nel contempo nessun rappresentante del potere costituito osava chiedere che chi ne rivendicava la paternità ne rendesse anche conto alla giustizia; in altri termini iniziava la latitanza del potere costituito, che abdicava silenziosamente ai suoi diritti ed alle sue prerogative. Lo squadrismo venne quindi organizzato a livello nazionale. Fu abbastanza semplice, tenuto conto del gran numero di militari che aderivano al movimento fascista, creare le "squadre d'azione" con compiti punitivi e di lotta armata contro i poteri dello Stato di diritto.

11) CADUTA DEL GOVERNO ORLANDO NUOVO GOVERNO NITTI

L'insuccesso diplomatico, subito da Orlando-Sonnino nelle trattative alla Conferenza per la pace a Parigi, si rivelò mortale per la vita del Governo, che condusse dal momento del suo ritorno in Italia vita molto stentata e venne attaccato con veemenza da tutta la stampa italiana. ll 19 giugno 1919 il Governo Orlando cadde. "...All'apertura di una delle solite discussioni alla Camera, la sua intempestiva richiesta della costituzione di questa in Comitato segreto fu respinta da tutte le parti, raccolse 78 voti contro 262: anche Giolitti votò contro. Turati parlò di suicidio." Il successore di Orlando fu Francesco Saverio Nitti, il quale formò un governo di centro con larga partecipazione di elementi giolittiani: la nuova immagine differiva dalle precedenti per un aspetto importante: l'inclusione di due rappresentanti del Partito popolare. La posizione di Nitti era democratica: egli simpatizzava con non molte aspirazioni del "diciannovismo" e, come Giolitti prima del 1914, sperava che i socialisti moderati potessero indursi ad appoggiare un programna avanzato di riforme, anche se i massimalisti si fossero mostrati sordi al richiamo della ragione. Negli ambienti politici si affermò ben presto che se il Partito popolare poteva essere definito la moglie legittima di Nitti, il Partito socialista ne era l'amante." ll nuovo gabinetto Nitti si trovò immediatamente ad affrontare una grave situazione diplomatica, determinata dalla diplomazia Orlando-Sonnino, e una gravissima situazione interna con problemi economici drammatici, scioperi continui e. manifestazioni di massa, spesso con risvolti di grande violenza. A Parigi l'arrivo di Tittoni, nuovo ministro degli Esteri italiano, suscitò molta diffidenza: Tittoni era ritenuto un germanofilo, e gli alleati gli attribuivano un ruolo di "spione" dei tedeschi. Il Corriere della Sera faceva eco a questi sospetti degli alleati, affermando che "a Parigi l'equivoco che ha presieduto la combinazione non gioverà a dissipare sospetti e leggende intorno all'opera e alle intenzioni dei nostri negoziatori, le cui capacità d'azione potranno per tal modo subire attriti che si sarebbero evitati facilmente, solo che si fosse pensato che il paese combattente e vittorioso non doveva essere governato da un Gabinetto così ossequioso alle fazioni che respinsero l'intervento e ostacolarono la vittoria."Le prime settimane di Governo furono per Nitti dense di preoccupazioni. Ai tumulti contro il costo della vita, scoppiati in giugno, seguì in luglio uno sciopero generale nazionale. I nazionalisti organizzarono dimostrazioni isteriche e furono persino compiuti tentativi di sovversione in seno all'esercito per incitarlo ad un colpo di stato militare. Nitti conservò la calma. Grazie alI'esperienza acquisita durante la guerra ed agli stretti rapporti che aveva con il mondo bancario e finanziario, egli comprendeva la reatà della situazione italiana molto meglio della maggior parte degli uomini politici. La minaccia del soffocamento economico del paese era diventata la sua ossessione : per cinque mesi, dopo le sue dimissioni dal governo, aveva studiato le esigenze della ricostruzione e si era preparato a succedere ad Orlando; adesso che la sua ora era giunta egli si sentiva il salvatore della patria: introdurre di più, consumare di meno, era la sua ingrata ricetta." Una cosa era certa: Francesco Saverio Nitti ereditava una serie di problemi di gravità eccezionale, che soltanto con grande energia e forza d'animo avrebbero potuto essere risolti. Invece a Nitti fece difetto proprio l'energia, sicchè, malgrado gli ottimi risultati derivati dalla sua attenta ed intelligente opera di governo, la situazione politica e sociale italiana si andò deteriorando sempre più, consentendo quindi la soluzione autoritaria fascista, Gaetano Salvemini, nelle sue lezioni di Harvard, descrive con grande efficacia il caos politico e sociale al quale fu in preda l'Italia di quegli anni. "Tutti strepitavano racconta Salvemini - e ciascuno per sue buone ragioni; i massimalisti, i comunisti e gli spartachisti perchè pensavano che in tal modo si avvicinava il giorno della rivoluzione; i socialisti perchè ritenevano che la pace raggiunta non fosse quella da loro desiderata; i democratici perchè ritenevano che la giusta pace potesse esistere soltanto con il pieno appagamento delle giuste richieste italiane; i nazionalisti perchè, avendo sostenuto il Governo Orlando, ed essendo questo Governo miseramente naufragato, non intendevano adesso ammettere l'errore e strepitavano contro coloro che la guerra non avevano voluto". Mussolini non fu da meno degli altri anzi si dimostrò il più violento di tutti. Egli pensava ad un'alleanza italiana con la Russia, la Germania, l'Ungheria e la Bulgaria, ch'egli chiamava nazioni proletarie, contro gli Stati Uniti ed i suoi servitori, ch'egli definiva le nazioni capitaliste. Pensava che gl'italiani dvessero mostrare la loro energia agli alleati, dimostrare la loro ferma determinazione, non piagnucolare quando venivano tenuti in poco conto. Si creava così la leggenda della vittoria mutilata e l'Italia acquisiva sempre più la psicologia di una nazione sconfitta. Tra l'altro Nitti venne accusato dai nazionalisti e dai fascisti di essere un servitore di Giolitti; inoltre lo si accusò di non essere mai stato un interventista convinto. Invano iI nuovo presidente del consiglio fece presente ch'egli intendeva servire il Paese con la sua testa, senza accettare procure da nessuno, e senza quindi farsi servitore di Giolitti; invano egli affermò la sua fede per gli ideali della guerra combattuta, facendo presente che uno dei suoi figli era stato volontario in guerra. Nella realtà dei fatti Nitti incontrò l'ostilità e l'odio più feroce dell'esercito in armi e dei nazionalisti, che di questo si facevano portavoce, e ciò in quanto era chiaro il suo programma di smobilitare totalmente il nostro apparato bellico, che a distanza di molti mesi dalla fine della guerra era ancora interamente in armi, comando all'erario pubblico immense cifre di danaro. Inoltre egli riteneva opportuno che venisse affidato il ministero della Guerra ad un civile, escludendo dal delicato incarico i militari, ch'egli accusava d'essere poco oculati amministratori. Nel suo programma alla Camera infatti era previsto: "Compiere il più rapidamente possibile il passaggio dallo stato di guerra lo stato di pace, abolendo tutto ciò che la guerra rese necessario e che la pace rende superfluo e perciò stesso dannoso... La smobilitazione procederà il più rapidamente possibile, data la situazione internazionale e condizioni dell'ordine pubblico. Per quanto potrà, il Governo si propone di tener conto della situazione creata agli ufficiali. Ma ciò che noi desideriamo più vivamente nel più breve tempo possibile, è di eliminare le più gravi spese che dipendono dalla resistenza di organismi che non hanno attinenza diretta con la guerra, ma che la guerra rese necessari o almeno inevitabili e che resistono ancora oggi che la guerra è finita." Nella realtà dei fatti, Nitti varò un piano di smobilitazione dell'esercito, ma invece di chiamare al ministero della Guerra un civile, così come aveva promesso nel suo programma, affidò il ministero al generale Albricci, '"per eludere il tentativo dei suoi avversari di presentarlo come nemico dei combattenti". " Avere a fianco di me un uomo, che significasse che non solo io amavo l'esercito, ma che sentivo la profonda bellezza morale dei sacrifici passati, m'è parso un dovere." 

12) TITTONI A PARIGI ALLA CONFERENZA PER LA PACE

Il 30 giugno giunse a Parigi la nuova delegazione italiana per la pace. Essa era formata da Tittoni, nuovo ministro degli Esteri deI governo Nitti, da SciaIoia, capo dei fascisti alla Camera, da Maggiorino Ferraris, da Marconi e da Crespi, che era senz'altro l'uomo di maggiore esperienza diplomatica della delegazione italiana. Inoltre Crespi, avendo partecipato alle precedenti trattative di Orlando-Sonnino, rappresentava la continuità diplomatica della delgazione italiana. 
Il 29 giugno era stato firmato il protocollo di pace con la Germania e nella stessa data quello relativo alla Società delle Nazioni; per l'ltalia avevano firmato ancora Sonnino, Imperiali e Crespi. Subito dopo, Wilson era partito per gli U.S.A., come a voler sottolineare la sua indifferenza ad incontrarsi con la nuova delegazione italiana, alla quale egli non aveva più nulla da dire, avendo già precisato le concessioni ch'era disposto a fare. Tittoni già immaginava di trovare una situazione poco favorevole al nostro Paese; la la realtà dei fatti fu senz'altro più sfavorevole di quanto avesse potuto supporre attraverso le relazioni di Orlando e di Crespi. Al suo arrivo infatti francesi ed inglesi gli consegnarono un memorandum che era una sostanziale denuncia del Patto di Londra.
In esso si affermavano una serie di responsabilità italiane; quindi tenuto conto dell'opposizione americana al trattato, si concludeva richiedendo un riesame totale e completo dell'intera questione su nuove basi primo acchitto Tìttoni fu tentato di abbandonare la Conferenza, imitando il gesto clamoroso di Orlando. Ma la situazione economica dell'Italia era tale da non consentire più grandi spazi di manovra: occorreva trattare e cercare di strappare ciò che poteva, senza pretendere ciò che non sarebbe stato mai e poi mai concesso. Tittoni quindi, coadiuvato dai suoi collaboratori, preparò una risposta al memorandum alleato, consegnandola il giorno 7 agli alleati. 
Mentre la discussione si avviava stentatamente, e con grande diffidenza degli alleati, giunse a render drammatica l'atmosfera la notizia di gravi incidenti, scoppiati a Fiume con numerosi morti francesi. Ciò rese difficile il proseguimento delle trattative, che si trascinarono avanti senza sostanziali progressi. Sicchè alla grave situazione interna, culminata con una serie di tumulti per il carovita e ad una serie di scioperi, spesso di carattere politico, si aggiungeva la nuova situazione fiumana. Tittoni, al fine di rabbonire gli alleati propose allora la nomina di una commissione d'inchiesta interalleata che potesse chiarure le responsabilità e prendere di conseguenza i provvedimenti del caso di lì a qualche mese i risultati stessi della commissione avrebbero provocato l'impresa dannunziana di Fiume, ed allora ogni tentativo di risoluzione diplomatica si sarebbe rivelato difficile. Soltanto un anno dopo si troverà la via diplomatica della soluzione, a Rapallo.

13) DIFFICILE CONVIVENZA A FIUME TRA LE FORZA INTERALLEATE

Il 30 giugno il generale Grazioli, comandante del corpo interalleato di occupazione Fiume, spedì un telegramma a Badoglio informandolo di incidenti avvenuti la sera precedente verso le ore 21 tra soldati francesi, chiaramente filo-croati, e soldati italiani. Secondo le informazioni fornite da Grazioli, i militari francesi avevano provocato con il loro atteggiamento sfacciatamente filo-croato la reazione dei commilitoni italiani. Nitti, informato dell'accaduto, raccomandò che venissero evitati incidenti, tenuto conto anche delle gravi difficoltà nelle quali già si dibattevano le trattative diplomatiche a Parigi. Il 3 luglio tuttavia, malgrado le raccomandazioni del nostro Governo, si ebbero nuovi disordini. Secondo la versione, fornita sempre da Grazioli, un soldato francese aveva strappato una coccarda tricolore dal petto di una ragazza. Ciò aveva provocato la reazione dei fiumani italiani, che avevano reagito, dando luogo a nuove risse, sedate a stento dai carabinieri e da truppe italiane. Bilancio dei nuovi disordini: una ventina di soldati francesi feriti. lnfine il giorno 6 luglio si ebbero gli incidenti più gravi, che provocarono la morte i nove soldati francesi ed il ferimento di undici. Sui luttuosi fatti disponiamo di numerose e discordanti versioni: del gen. Grazioli, deI Consiglio Nazionale Fiumana, del capo degli autonomisti fiumani Zanella, del gen. Savy, della Commissione d'inchiesta... L'ultima delle versioni, presentando di gran lunga maggiore garanzia di obbiettività, è anche quella che può essere assunta come la più degna di fede. Gli incidenti mortali del 6 luglio furono preceduti, la sera prima, da qualche tafferuglio provocato, davanti alla caserma dei soldati francesi, da ragazzi e giovani italiani in atteggiamento di ironica sfida, e riprodottisi poi in maniera più grave, con lo sparo di alcuni colpi di rivoltella e il lancio di una bomba a mano che fortunatamente non provocarono vittime, tra cittadini e militari italiani da una parte e soldati francesi dall'altra, questi ultimi infine inseguiti, percossi e malmenati. Queste prime avvisaglie lasciarono gli animi così turbati e eccitati che il mattino della domenica 6 luglio la scintilla fatale scoccò: tre francesi si scontrarono con una pattuglia che aprì il fuoco su di essi uccidendone uno, ferendone un altro, arrestando il terzo. Subito la città è in subbuglio. La folla italiana si dirige, senza preciso motivo, senza una vera e propria provocazione, verso i magazzini francesi di Porto Barros, dove non era mai accaduto alcun incidente. Due colpi di rivoltella partono dalla folla, tirati da civili sulla sentinella annamita che risponde, altri colpi partono dalle finestre delle case dirimpetto, altri ancora attraversano il bacino del porto. All'incirca nel momento in cui il fuoco cessa, il comando italiano inizia l'occupazione della città. Tre compagnie di marinai vengono sbarcate dalle navi da guerra Emanuele Filiberto, Dante e S. Marco, ancorate nel porto. La prima si reca alla banchin dove sono i cacciatorpediniere francesi e si dispone a loro protezione; la seconda si reca al centro della città per garantire la libera circolazione; la terza, ricevuto dal comandante Acton l'ordine di interporsi tra la folla dei manifestanti e i magazzini francesi della base senza far uso delle armi, si avvia verso il luogo. "La compagnia avanza in colonna per quattro," si legge nella esatta relazione della Commissione interaIleata d 'inchiesta, di cui aveva fatto parte anche un generale italiano, e, passato il ponte girevole ode sibilare qualche proiettile. Prende misure di combattimento: dapprima si spiega e spara una salva, poi corre all'attacco, si vide in tre colonne, invade i magazzini, li vista, uccide o ferisce i francesi e gli annamiti che vi si erano rifugiati e trasporta i superstiti sull'Emanuele Filiberto dove i feriti vengono fasciati." La Commissione d'inchiesta potè accertare la responsabilità italiana. Erano stati uccisi due soldati già arresisi; alcuni soldati furono uccisi a pugnalate; la folla lanciò due granate, che provocarono una vittima. Il 9 agosto del 1919 la Commissione d'inchiesta potè consegnare il suo rapporto al Consiglio Supremo della Conferenza della Pace a Parigi e potè inoltre suggerire i provvedimenti del caso. Essi erano: 
- sostituzione del Consiglio Nazionale italiano di Fiume con un Governo interalleato della città;
- elezioni generali, sotto il controllo di rappresentanti interalleati (avrebbero votato in unico collegio i fiumani e gli abitanti di Susak, del tutto croata); 
- riduzione delle forze militari italiane; 
- scioglimento della legione fiumana del capitano Host-Venturi; 
- creazione di un corpo di polizia inglese o americano; 
- deferimento agli organi giudiziari dei responsabili dei luttuosi incidenti; 
- risarcimento da parte italiana dei danni morali e materiali causati ai francesi. Nitti cercò in tutti i modi di evitare che venisse data pubblicità alle decisioni della commissione; ma era impossibile che il pubblico italiano le ignorasse. Ormai tutti i giornali francesi ne parlavano, e riferivano anche della imminente partenza dalla città dei granatieri di Sardegna, che sarebbero stati sostituiti dalla brigata Regina. Nitti, sebbene potesse agire per mezzo della censura di guerra, ancora scandalosamente non abolita in Italia, dovette rassegnarsi a che gl'italiani conoscessero ciò che la Commissione interalleata d'inchiesta aveva appurato.

14) D'ANNUNZIO A FIUME

Subito dopo i disordini di Fiume, si era istituito un "Comitato per le rivendicazioni nazionali", che faceva capo a Giuriati il quale godeva la fiducia di tutti i gruppi uItranazionalisti d'Italia. Egli faceva da tramite tra i nazionalisti, i fascisti, gli arditi, gli irredentisti fiumani, l'Associazione irredentista Trento-Trieste ed i militari. Il Giuriati, forse conoscendo già la verità sui fatti fiumani, previde sin dall'inizio quale sarebbe stato l'esito delle indagini della Commissione d'inchiesta; sicchè sin dall'inizio Giuriati, che si appoggiava all'industriale triestino Oscar Sinigaglia, finanziatore generoso degli irredentisti e dei nazionalisti e per ciò chiamato da Turati "l'impresario del "fiumanismo", pensò di organizzare una "legione" per dare forza all'annessione di Fiume all'Italia. Il Giuriati era riuscito, grazie a finanziamenti raccolti da varie fonti, anche dal Popolo d'Italia, a costituire la così detta "legione fiumana" posta al comando di Host-Venturi, i cui compiti sovversivi furono chiari sin dall'inizio a tutti. Nell'agosto si ebbe il rapporto della Commissione interalleata d'inchiesta. A causa del veto posto alla libertà di stampa da Nitti in Italia non si conobbero subito le soluzioni del problema prospettate dalla Commissione; quel che è peggio si conobbero relazioni distorte, che dettero un 'idea parziale ed errata di quanto la Commissione aveva stabilito. Essa aveva infatti suggerito una serie di provvedimenti che avrebbero reso impossibile qualsivoglia colpo di mano. Infatti se era pensabile un colpo di mano contro un generale italiano compiacente, ciò diventava impossibile contro un comandante straniero, che di certo non si sarebbe posto tanti problemi "patriottici" e che avrebbe senz'altro fermato qualsivoglia tentativo insurrezionale. I cospiratori compresero allora che era necessario agire, con la massima rapidità e senza ulteriori esitazioni. Capo della congiura ancora non era stato designato D'Annunzio; anche altri uomini avrebbero potuto aspirare al posto di condottiero dei cospiratori: Sem Benelli, Host-Venturi avevano le carte in regola per comandare loro la spedizione. Il nostro servizio informazioni aveva avvertito il Governo ed il generale Badoglio dell'atmosfera di complotto, che serpeggiava tra i reparti dell'esercito regolare, sobillati dagli irredentisti, dai nazionalisti, dai fascisti e dagli arditi. Nitti era contrario a qualsiasi avventura. La sua maggiore preoccupazione era di mantenere l'ordine a Fiume, consentendo quindi a Tittoni di condurre con serenità le trattative diplomatiche in corso. Nitti quindi dette ordine a Badoglio di rafforzare il controllo sulla zona; inoltre decise di nominare, al comando delle truppe italiane di Fiume, il generale Pittaluga, uomo noto per la sua grande energia e lealtà al Governo. Pensava Nitti in tal modo di avere scongiurato qualsivoglia tentativo sedizioso, ma non si era reso conto dell'indisciplina che ormai serpeggiava nell'esercito e che lo rendeva infido. I fiumani, conosciuta la decisione della Commissione d'inchiesta di far ritirare i granatieri di Sardegna, sostituendoli con la brigata Regina, mobilitarono l'intera popolazione per una dimostrazione di massa e di saluto ai soldati, che essendo stati i primi militari italiani a "liberare" Fiume, erano il simbolo stesso della "liberazione di Fiume. Essi "erano rimasti (nella città) per nove mesi e avevano finito per 'fiumizzarsi', partecipando alla vita della città e divenendo il simbolo della volontà italiana di strappare Fiume dal suo stato di limbo." All'alba del 25 agosto, data fissata per la partenza dei granatieri, i cittadini fiumani si riversarono per le strade; era ancora buio, sicché dovettero farsi luce con le torce. "Migliaia di fiumani, al suono delle fanfare e drappeggiati con le bandiere italiane o in altre fogge patriottiche, avanzarono per bloccare il passo ai granatieri in marcia" all'altezza dei giardini pubblici. L'incontro con i soldati italiani fu un fatto d'incredibile isterismo collettivo. "I fiumani gettavano fiori sulle truppe e gridavano: "fratelli, non ci abbandonate! non lasciateci nelle mani dei croati! ", e i soldati rispondevano urlando: "viva Fiume italiana!". I fiumani bloccarono la strada distendendovi le bandiere e i vessilli, e le truppe si arrestarono per un momento. A questo punto le donne si gettarono in ginocchio davanti ai soldati, implorandoli di rimanere, mentre i bimbi correvano ad aggrapparsi alle mani e alle gambe degli ufficiali. Poichè la scena minacciava di degenerare nel caos più completo, il generale dei granatieri Anfossi si portò alla testa della colonna, accolto da grida perché desse ai soldati l'ordine di rimanere a Fiume. Ma... il generale non perse la testa e i liberatori ripresero la loro marcia verso il nord, lungo la costa." Ma l'isterismo collettivo non terminò qui; poco dopo, l'arrivo dei soldati della brigata Regina, permise ai fiumani di dimostrare la loro passione italiana ed i "nuovi soldati furono immediatamente sommersi da baci, applausi, evviva, canti patriottici e inni, e da un vero profluvio di fiori". Senz'altro Fiume era una città particolare; la vita cittadina aveva talmente risentito dell'irredentismo esasperato da rimanerne interamente permeata. Il 28 agosto il generale Pittaluga, su ordine del comando di Udine, assunse il comando delle truppe italiane a Fiume; quattro giorni dopo, partito da Fiume il generale Grazioli, il Pittaluga divenne comandante anche del corpo interalleato di stanza a Fiume. Nitti, ben certo dell'energia del nuovo comandante e della sua fedeltà al governo, pensava a questo punto di essersi 'premunito da eventuali colpi di mano. Ma evidentemente sbagliava; egli non aveva tenuto in debito conto i sentimenti irredentistici che animavano buona parte dell'esercito, ed in particolare i reparti che erano rimasti per tanto tempo di stanza a Fiume. Risulta a questo punto incomprensibile perché si sia deciso di trasferire i granatieri di Sardegna a Ronchi; conoscendo l'esaltazione fiumana di questi uomini, informati dello spirito di ribellione che serpeggiava tra di essi, sarebbe stata buona norma e previdente decisione tràsferirli ben lontani dalla "zona calda" e ciò proprio al fine di evitare eventuali colpi di mano. Eppure nessuno pensò che la relativa vicinanza a Fiume avrebbe potuto essere pericolosa, e si ritenne che tutto sommato avrebbe prevalso la disciplina e pian piano si sarebbero chetate le "teste calde". "Il primo Battaglione di granatieri, in attesa di rientrare a Roma sede della brigata in tempo di pace, venne provvisoriamente acquartierato a Ronchi, grossa borgata della provincia di Trieste, (oggi fa parte della provincia di Gorizia) a quattro chilometri da Monfalcone. La località era già storicamente nota perchè il 16 settembre 1882 vi fu arrestato Guglielmo Oberdan e, singolare coincidenza, proprio in un'aula dell'edificio scolastico di Ronchi (trasformato in ospedale durante la guerra) era stato ricoverato dal febbraio all'aprile 1917... il bersagliere Benito Mussolini". Giunti quindi nella loro nuova sede, alcuni ufficiali subalterni, (sette per l'esattezza) imbevuti di letture dannunziane, cosa allora molto comune tra i giovani intellettuali italiani, redassero ed inviarono un appello al poeta, che si trovava allora a Venezia, dove stava seriamente occupandosi della possibilità di effettuare una grande trasvolata verso l'oriente. "E voi non fate nulla per Fiume? Voi che avete nelle Vostre mani l'Italia intera, la grande, nobile, generosa Italia, non la scuoterete da quel letargo nel quale da qualche tempo è caduta?" Così diceva l'appello dei giovani ufficiali, i quali inviarono quindi uno di loro, il sottotenente Grandjaquet, sino a Venezia con lo scopo di spingere D'Annunzio alla grande impresa. Il Poeta viveva dicevamo a Venezia presso la così detta "Casetta rossa" e lì riceveva continue visite dei più diversi e svariati personaggi. Ancora oggi non è certo chi sia riuscito a convincere D'Annunzio a mettersi alla testa dei granatieri di Ronchi. Probabilmente egli subì l'influenza di diversi personaggi: del generale Grazioli, di Host-Venturi, di Carlo Reina, di Claudio Grandjaquet e di altri ancora. Fatto sta che il giorno undici D'Annunzio lasciò Venezia per Ronchi, dove si recò per assumere il comando della spedizione. "Il colpo di mano ebbe inizio con un piccolo gruppo di uomini, centottantasei granatieri, più tutti quelli che si sarebbero uniti ad essi alle porte di Fiume (secondo le previsioni numerosi Arditi e la legione di Host-Venturi)... La maggior parte delle forze comandate da D'Annunzio quando entrò in città la mattina del dodici settembre o si era unita alla colonna in marcia verso Fiume o era avanzata di propria iniziativa sulla città, dove si incontrò con D'Annunzio. E ciò avvenne malgrado le severe istruzioni. impartite dal governo a tutti gli ufficiali comandanti la zona di bloccare ogni tentativo di conquista della città. Eppure, durante la lunga notte e al primo mattino, non un solo colpo fu sparato nel tentativo di arrestare D'Annunzio o di fermarne l'avanzata. Solo fuori dalle porte della città furono rivolte al poeta poche, sterili parole (da parte del generale Pittaluga) per richiamare la sua attenzione su un fatto di cui del resto egli si rendeva perfettamente conto: la marcia costituiva un atto di sedizione". Si unirono ai granatieri partiti da Ronchi gli Arditi del generale Zoppi. Il colonnello Repetto, malgrado l'ordine impartìtogli di persona dal generale Pittaluga, di far fuoco su D'Annunzio per fermarlo, rese gli onori al suo comandante ma si rifiutò d'obbedire. Così le truppe al comando del poeta-soldato, subito ribattezzato da tutti "il comandante," entrarono tra il tripudio della folla fiumana nella città. "D'Annunzio prese possesso della città in nome dell'Italia, e l'annessione all'Italia fu annunciata ancora una volta dal balcone del Palazzo del governo, da cui D'Annunzio arringò la folla. Vennero abbassate, con l'onore delle armi, le bandiere alleate, rimanendo a sventolare, solo, il tricolore. Le truppe alleate non fecero resistenza e più tardi pacificamente sgomberarono." Frattanto nei giorni seguenti affluirono di continuo e di propria iniziativa altri gruppi di militari di varie armi e specialità; di terra, di mare e d'aviazione. Si associarono alla sedizione anche le due navi da guerra Dante Alighieri ed Emanuele Filiberto; in esse infatti i marinai rifiutarono di salpare ed osarono anche arrestare l'ammiraglio Casanuova, che si era recato sulla Dante Alighieri per convincere i marinai ad essere obbedienti e quindi a partire. Il 13 settembre Nitti si presentò al Parlamento per riferire sui gravi casi di Fiume. Egli senza mezzi termini condannò l'impresa dannunziana, definendola la "follia di un vanesio"; constatò che il modo di agire dei militari aveva solo un nome: diserzione; promise che contro coloro che non fossero subito tornati al loro posto, obbedendo alle competenti autorità militari, si sarebbe proceduto giudiziariamente per il reato appunto di diserzione. In tutta Italia nazionalisti, fascisti ed arditi dimostrarono a favore di Fiume e di D'Annunzio, contro il governo Nitti. A Fiume D'Annunzio affibbiò al presidente del Consiglio il nomignolo dispregiativo di Cagoia (Cagoia era un crapulone triestino, del basso popolo, espressione della vigliaccheria). Mussolini per non essere da meno, inveì contro il governo e particolarmente contro Nitti. Inoltre egli si recò a Fiume a farsi notare accanto al "Comandante" ed inviò in loco anche altri suoi fedeli collaboratori, quali Marinetti e Vecchi. Ma ciò che maggiormente interessa ricordare in questa sede è come l'impresa fiumana avesse in sé già tutto il successivo rituale fascista, rivolto alla manipolazione delle masse; il fascismo lo farà proprio, trasformandolo in strumento di potere. Fu D'Annunzio a dimostrare la possibilità, grazie alla connivenza dell'esercito, di marciare senza colpo ferire su Fiume: Mussolini trasformerà questa marcia fiumana in marcia su Roma; fu sempre D'Annunzio ad iniziare il rituale dei discorsi dal balconecon saluto romano ed il grido di "eia, eia, alalà": Mussolini trasferì questi metodi giore di peso nella nuova gestione del potere e nella manipolazione delle masse; fu sempre D'Annunzio ad evocare i martiri coi simboli e rituali quasi religiosi; per D'Annunzio era la bandiera del Randaccio, per i fascisti sarà l'evocazione mistico-religiosa dei loro "martiri". Ed anche il dialogo con la folla, già iniziato da Orlando, fu perfezionato sino a diventare coro drammatico, quasi rappresentazione da tragedia greca, con conseguenti emozioni e forme di isterismo collettivi. Infine fu sempre D'Annunzio ad inaugurare la prassi dei plebisciti (probabilmente addomesticati), prassi ripresa dal fascismo e poi dal nazismo. In sostanza l'impresa fiumana fece scuola, ed insegnò, a chi volle imparare, come potesse essere semplice impadronirsi del potere, abbattendo uno stato debole e smidollato, senza alcuna capacità di reagire adeguatamente alla minaccia portata alla sua Costituzione. Ovviamente la prima reazione da parte degli Alleati fu quella di ritenere che il governo di Roma fosse d'accordo con D'Annunzio, e che di conseguenza la marcia su Fiume fosse stata tutta una messa in scena. Tuttavia man mano che giunsero precise informazioni da parte degli organi diplomatici accreditati in Italia, tutti si resero conto che, per quanto potesse sembrare poco credibile, il governo italiano era del tutto estraneo al pronunciamento dannunziano. Si pose allora la preoccupazione che la sedizione potesse estendersi al rimanente territorio italiano, portando l'Italia verso soluzioni di tipo bolscevico. Sicchè, vista la buona fede del governo, si decise di lasciare che fosse lo stesso governo italiano a cercare una soluzione diplomatica o di forza alla crisi, fermo restando il principio che gli alleati non intendevano affatto accettare il fatto compiuto dell'annessione di Fiume all'Italia. La ferma decisione di Wilson di non cedere nulla più di quanto non fosse già stato assegnato all'Italia, non consentì comunque di risolvere subito la crisi relativa alla questione fiumana. Invece si potè senza problemi giungere alla firma del trattato di pace tra Italia ed Austria. A Saint-Germain il 10 settembre del 1919 Austria e Italia firmarono la pace definitiva. In base al trattato, all'Italia venne assegnato il Trentino, l'Alto Adige, la Valle di Sesto e la conca di Tarvisio. Per tali cessioni Wilson, che restava il più fiero oppositore alle rivendicazioni italiane, aveva già, sin dal precedente maggio, data la sua approvazione.

15) SCIOGLIMENTO DELLE CAMERE NUOVE ELEZIONI

Il 27 settembre Tittoni fece alla Camera le sue dichiarazioni, relative alla questione fiumana. Considerato il fatto che gli Stati Uniti non riconoscevano il Patto di Londra, e si opponevano in modo categorico all'annessione di Fiume all'Italia, e tenuto conto dell'assoluta necessità dell'Italia di ricevere cospicui aiuti finanziari dall'America, al fine di potere sanare le gravi ferite lasciate dal lungo conflitto, era indispensabile cercare in qualsivoglia modo un compromesso con gli Stati Uniti. D'accordo questi sulle concessioni da fare all'Italia, anche gli altri avrebbero dato il loro consenso. Alle dichiarazioni di Tittoni seguì una aspra discussione, che raggiunse toni di grande violenza, degenerando talvolta in vera e propria rissa. Alla fine il giorno 29 fu posta la questione della fiducia al governo, che la ottenne con 208 voti favorevoli contro 148 contrari. Sulla questione fiumana il 30 settembre "Il Popolo d'Italia" pubblicò il seguente articolo di Mussolini: "Tre fattori sono stati dimenticati nella discussione che ha preceduto il voto di scarsa fiducia della Camera e sono di grandissima importanza. E' strano come deputati e ministri non abbiano, parlando della situazione, tenuto conto di tre elementi decisivi. Primo: la volontà di Fiume. Secondo: la volontà dell'Italia. Terzo: la volontà di D'Annunzio e dei suoi legionari. Se questi tre elementi fossero stati illustrati e presi in con-siderazione, è assai probabile che la tesi annessionistica avrebbe trionfato. Esiste, per l'annessione, una volontà dei fiumani, espressa e consacrata in oramai decine di atti legali del Consiglio Nazionale e di unanimi manifestazioni di popolo. Non bisogna dimenticare che sin dal 30 ottobre del 1918 Fiume si considera annessa politicamente all'Italia. Cento volte è stato detto che il caso di Fiume è quello classico dell'autodecisione dei popoli. Ma se non bastasse la volontà plebiscitaria dei fiumani, c'è la volontà italiana. Recenti pubblicazioni della "Trento Trieste" confermano questo plebiscito. Ben quattromila Comuni hanno inviato la loro adesione alla causa fiumana.Tutto l'esercito è per Fiume. Su ciò non è possibile dubbio di sorta. I legionari sono andati a Fiume di loro spontanea volontà,non spinti dalla "vile borghesia", la quale, oggi, come nel 1915, ha un sacro orrore per tutto ciò che esce dai confini del "normale" svolgimento della vita quotidiana. E' lecito domandarsi: è possibile per il governo italiano ignorare questo duplice grandioso plebiscito? Terzo elemento decisivo: la volontà di d' Annunzio. Gli schemi e le rodomontate nittiane della prima ora, quando si minacciava una energica repressione contro i "disertori", hanno ceduto luogo a un linguaggio molto meno spavaldo. A Fiume ci sono sedicimila soldati che obbediscono a d'Annunzio, ma quello che a Roma si sa, è che a un cenno di d'Annunzio tutte le truppe dall'Isonzo a Mattuglie si schiereranno con lui. Ora d'Annunzio non è disposto a "mollare" Fiume, finchè Fiume non sarà annessa all'Italia e contro d'Annunzio non c'è nulla da fare, nè dall'interno, né dall'esterno. Contro d'Annunzio non può far nulla il governo di Nitti; contro d'Annunzio non può far nulla l'esercito jugoslavo per la semplicissima ragione che quasi non esiste, non ha volontà e capacità di battersi, essendo composto in gran parte dei serbi svenati da tre guerre e minacciati da altri nemici; contro d'Annunzio non può far nulla il sinedrio di Parigi, che si trova in istato di totale impotenza. Così stando le cose è chiaro che per uscire dal formidabile intrico, la via più breve e violenta è la migliore ed è quella dell'annessione che rispetta tre volontà e non si cura di tre impotenze. I pericoli agitati per impedire l'annessione possono raggrupparsi in due categorie: l'isolamento diplomatico e l'isolamento economico. Bisogna dimostrare che annettendo Fiume l'Italia si troverebbe diplomaticamente isolata. Può darsi. Ma in un primo e brevissimo tempo. Se l'Europa si fosse stabilizzata in alcune definite posizioni, questo pericolo d'isolamento potrebbe essere reale; ma tutto è ancora in fermento e in movimento ed è assai probabile che l'Italia non sarebbe sfuggita, ma piuttosto ricercata da quelle stesse potenze che si illudono di averla eternamente vincolata alla loro politica. Resta l'isolamento economico. Chi potrebbe bloccarci? L'Inghilterra e la Francia, no. Gli Stati Uniti? E' assai difficile, se non assurdo. Bisogna dimostrare: 1) che Wilson si spingerebbe a chiedere e ad attuare contro un popolo alleato che ha, fra parentesi, alcuni milioni dei suoi figli in America, il blocco della fame; 2) che il popolo americano seguirebbe Wilson. Ora per quello che si capisce della situazione politica americana, risulta che Wilson è minacciato da una opposizione fortissima, che non gli permetterebbe - specialmente nella questione di Fiume - di assumere atteg-giamenti dittatori e provocare misure draconiane contro di noi. Per queste chiare ragioni noi continuiamo a sostenere che l'unica via d'uscita è la annessione e che l'ordine del giorno accettato da Nitti è pleonastico. Dire che "la Camera riafferma solennemente l'italianità di Fiume" è una trovata simile a quella di chi affermasse che "il sole spunta ad oriente e tramonta a ponente", e l'aggiunta di fiducia nell'opera del governo, senza indicargli qualche direttiva, è un piccolo servizio reso al ministero e una dimostrazione di pusillanimità". Tuttavia malgrado le critiche violente e l'atmosfera di rissa in Parlamento, il Governo resse e potè subito decidere lo scioglimento della Camera ed indire nuove elezioni. Il 29 settembre il decreto reale, relativo àppunto alle nuove elezioni, era già stato pubblicato. Le nuove elezioni presentavano due importanti novità: innanzi tutto era stato accettato il principio del suffragio universale, sia pure limitato ai soli uomini e con esclusione quindi delle donne; inoltre era stato reso esecutivo il criterio della proporzionale per l'assegnazione dei seggi, per cui ciascun partito avrebbe avuto nel nuovo Parlamento la rappresentanza effettiva e reale della propria consistenza elettorale. Ai primi di ottobre (esattamente dal giorno 5 al giorno 8) si svolse a Bologna il congresso nazionale del partito socialista. Si affrontarono tre correnti: quella moderata di Turati, che affermava la necessità di collaborare alla vita parlamentare del Paese, cercando di ottenere in cambio dalla classe politica al potere le riforme più urgenti, in attesa di conquistare il potere direttamente e quindi di dargli una impostazione "bolscevica"; quella massimalista, che sosteneva la tesi della immediata rivoluzione sociale: i socialisti dovevano entrare in Parlamento, soltanto per sabotarlo all'interno e per farla finita con quell' "istituto borghese"; infine la corrente degli spartachisti sosteneva la tesi secondo la quale il proletariato avrebbe dovuto astenersi dalle elezioni e far di tutto per provocare una rivoluzione socialista sul modello della Russia bolscevica. Ottenne la maggioranza assoluta la corrente massimalista, che riuscì a porre in netta minoranza sia i moderati che gli spartachisti. Sicchè i socialisti si presentarono alle nuove elezioni con scopi dichiaratamente rivoluzionari. Essi non compresero che parlare tanto di rivoluzione e non attuarla mai, otteneva soltanto lo scopo di provocare allarme e reazione, senza l'effettiva conquista rivoluzionaria del potere. Nel corso della "campagna elettorale, gli spartachisti non presentarono nessun candidato, ma si unirono con i massimalisti per disturbare i comizi degli altri candidati, e dare una idea, con le loro grida, di quello che pensavano dovesse essere la dittatura del proletariato. Mussolini non si limitò a gridare. A Milano e nelle città vicine, durante la campagna elettorale comparvero gruppi di uomini armati, pagati trenta lire al giorno, e pronti a combattere i socialisti non solo con gli urli ma con le revolverate. (Il fatto venne reso noto a una commissione di giornalisti milanesi da due redattori del "Popolo d'Italia" che erano in contrasto con Mussolini; vedi "Avanti!" 12 febbraio 1920, e "Secolo" 14 febbraio 1920. La "Civiltà Cattolica" (6 marzo 1920, pp. 472-474) commentò la notizia nei seguenti termini: "Un pò di lu-ce. E' poca; ma questo barlume ci basta per poter dire: quale pozzanghera!... Ecco in mano di quali genti stanno la bandiera del patriottismo e dell'onore nazionale.") Mussolini prese i fondi necessari per mantenere questi uomini, dalla somma di un milione di lire, che era stata raccolta tra gli italiani negli Stati Uniti. Questa somma doveva essere inviata a D'Annunzio. Mussolini invece trattenne per sé 480.000 lire, e mandò il resto a D'Annunzio. Questi in vita sua non aveva mai avuto troppi scrupoli in fatto di soldi, ma in questa occasione si mostrò scandalizzatissimo della operazione finanziaria condotta da Mussolini senza il suo permesso." Malgrado comunque le intemperanze fasciste, il clima preelettorale fu nel suo complesso abbastanza corretto. Parlare però di inusitata correttezza, come qualche scrittore ha fatto, pare decisamente eccessivo: il governo infatti fece di tutto per sostenere i candidati ad esso favorevoli; mentre, malgrado cercasse di evitare gravi episodi di violenza, non potè del tutto impedire che si verificassero conflitti in Sicilia, in Emilia, nella Toscana, Lombardia e Liguria. Però vista nella sua totalità, prescindendo quindi dagli episodi di violenza citati, che ebbero carattere sporadico, la campagna elettorale si svolse abbastanza correttamente e le elezioni poteroro essere tenute liberamente, senza intimidazioni di sorta. Abbiamo già visto il programma elettorale dei socialisti; abbiamo visto anche il programma dei popolari; vediamo adesso il programma dei liberali, che prima della guerra rappresentavano la stragrande maggioranza dell'elettorato italiano. Il Partito liberale risultò diviso tra due correnti: gli ex-interventisti da una parte, e gli ex-neutralisti dall'altra. Questo partito era comunque agli occhi degli italiani il maggior responsabile dell'intervento in guerra della nazione. Esso poteva ancora considerarsi un grande partito, soprattutto in quelle zone nelle quali le sue fortune erano legate alla presenza di qualche prestigioso leader politico: ad esempio in Basilicata la presenza del presidente del consiglio Nitti rendeva questo partito particolarmente forte; in Campania l'emergere di una personalità di grande spicco quale quella di Giovanni Amendola accentrava su di esso grandi interessi; convergevano inoltre su di esso le simpatie di tutta quella notevole massa di elettori, chiaramente giolittiani, e che si stringevano ancora intorno al vecchio capo politico. Sostanzialmente però la competizione elettorale verteva su un tema fondamentale: l'elettorato doveva esprimere la sua approvazione alla classe politica, che aveva voluto l'intervento in guerra, ovvero doveva esprimere la propria approvazione a quella classe politica così detta neutralista, che aveva cercato in tutti i modi di evitare che l'Italia venisse coinvolta nella grande guerra. Il responso dell'elettorato fu ampiamente favorevole ai neutralisti, e da ciò derivò inevitabilmente un grande trionfo del Partito socialista, premiato per la sua incrollabile avversione alla guerra; i socialisti invece interpretarono il voto come adesione al programma massimalista, al quale si erano ispirati nel corso della campagna elettorale. L'elezioni si tennero il 16 novembre. Esse dimostrarono, al di là di ogni illazione, come l'elettorato avesse premiato quelle liste i cui deputati erano stati neutralisti oppure sostenitori della guerra a malincuore. Confrontando i risultati elettorali delle prece-denti elezioni, tenutesi nel 1913, con quelle del 1919, ci si rende conto del profondo mutamento verificatosi nel Parlamento italiano con le nuove elezioni:
1) i liberali, i nazionalisti, i democratici, i radicali ed i riformisti, che tutti insieme formavano la così detta coalizione giolittiana, e che nel 19 13 potevano contare complessivamente 3.392.000 voti, ne ottennero tutti insieme soltanto 1.779.000; di conseguenza i seggi di questa coalizione, che in precedenza erano 410, si ridussero a soli 193, con una perdita veramente spaventosa. Scomparvero improvvisamente dalla scena politica leader di grande prestigio, quali Sonnino e Boselli, mentre Salandra e Bis-solati furono eletti a stento con un margine molto ristretto;
2) i socialisti invece videro più che raddoppiata la loro forza elettorale, passando da 883.000 voti a ben 1.835.000, con un aumento dei seggi da 52 a 156;
3) i popolari infine, che nel 1913 non avevano alcuna rappresentanza in Parlamento e che assorbirono del tutto i cosiddetti cattolici, che avevano soltanto 29 seggi e 302.000 voti nella precedente consultazione elettorale, videro i loro voti salire ad 1.167.000, e poterono quindi mandare in Parlamento una consistente forza di ben 100 deputati;
4) i restanti seggi furono divisi fra repubblicani, indipendenti e combattenti. I fascisti, alla loro prima prova elettorale, presentarono soltanto una lista a Milano; di essa facevano parte Benito Mussolini, Marinetti, il direttore d'orchestra Arturo Toscanini e altri personaggi dell'arditismo, del futurismo e di circoli intellettuali di varia estrazione. Questa lista riuscì a raccogliere poco meno di 5.000 voti, non ottenendo di conseguenza nessun seggio, e dimostrando in modo inequivocabile come ancora alla fine del 1919 il fascismo non avesse alcun peso nella vita politica italiana. Le nuove elezioni premiarono quindi i neutralisti. Le violenze, durante la campagna elettorale precedente le elezioni, non furono tuttavia un'esclusiva dei fascisti. Anche i socialisti, soprattutto contro i rappresentanti e le sedi del Partito popolare, si abbandonarono a gravissime forme d'intimidazione e violenza. "A Mantova venne preso a sassate l'oratore popolare, che aveva sostenuto il contradittorio con un socialista; a Foligno con chiave falsa fu aperta la sede del comitato elettorale del Partito popolare e messa a soqquadro; a Nenni durante un comizio socialista, fu sparato un colpo di rivoltella contro un popolare che aveva chiesto il contraddittorio; a Ceregnano (Rovigo) fu impedito all'oratore popolare di prendere la parola; a Serravalle Pistoiese fu aggredito l'oratore popolare; gravi violenze furono commesse dai socialisti nel corso di un comizio popolare a Civitavecchia. I socialisti giustificavano tali manifestazioni d'intolleranza, attribuendo intendimenti reazionari al Partito Popolare. Il risultato comunque più evidente delle elezioni fu quello di ridimensionare drasticamente il vecchio Partito liberale, e soprattutto di ridurre la vecchia maggioranza giolittiana. Per quanto malfamata, per quanto fosse stata oggetto di continui insulti, essa era stata sino ad allora una forza politica, che aveva consentito ad importanti esponenti politici, quali ad esempio Giolitti e Nitti, di dirigere la politica dello stato italiano, disponendo di un'ampia base parlamentare. Questa maggioranza adesso scompariva; a stento essa raggiungeva la metà della forza parlamentare, per cui non poteva più da sola governare il Paese. Ma ciò che maggiormente rendeva la situazione fluida ed insicura, era che a questa maggioranza giolittiana, non si sostituì nessuna forza politica omogenea in grado di ereditare il governo della nazione e di provvedere quindi alla risoluzione di tutti gli urgenti ed improrogabili problemi che si ponevano al Paese. Il Partito socialista infatti, legato al suo programma massimalista, si rifiutava di collaborare, come ripetutamente aveva proposto Turati, sia con la vecchia classe liberale che con i popolari, accusati d'essere reazionari. Sicchè quest'imponente forza elettorale rimase isolata e senza alcuna utilizzazione parlamentare. Il Partito popolare dal suo canto preoccupato di non apparire reazionario, non intendeva collaborare con la vecchia maggioranza parlamentare giolittiana. Il Parlamento italiano in altri termini non era in alcun modo in grado di assicurare uno stabile e forte governo al Paese. Ecco quindi la nuova realtà italiana: i liberali messi adesso in minoranza non erano più in grado di governare da soli; era indispensabile che almeno uno dei due grandi partiti di massa, cioè o il socialista o il popolare; concorressero organicamente alla formazione del nuovo governo. Invece entrambi non furono capaci di assumere responsabilità di governo dello Stato, al fine di affrontare i gravi e molteplici problemi che si ponevano impellenti: la ricostruzione della Nazione prostrata dalla "Grande Guerra", il ristabilimento dell'ordine pubblico turbato dall'insubordinazione dell'esercito e dalle continue violenze della piazza. Giustamente Nitti si era reso conto dell'impellenza dei problemi aperti nella Nazione, e ad essi si richiamava quando con oratoria purtroppo inascoltata, indicava i problemi che si ponevano innanzi al Paese. Ormai non era più il momento di fare il processo alla classe politica che aveva voluto la guerra; né era giusto e generoso denigrare la vittoria e il sacrificio, ch'essa era costata a milioni di combattenti; le nuove mete d'Italia dovevano essere quelle della ricostruzione economica della Nazione e del ristabilmento dell'ordine pubblico.

16) LA RIAPERTURA DEL PARLAMENTO

Il primo dicembre si riaprì il nuovo Parlamento italiano con i nuovi schieramenti politici determinati dalle elezioni. Tradizionalmente tutti i deputati giuravano fedeltà alla Costituzione ad al Re, quindi seguiva il discorso della corona. Per il passato i deputati socialisti si erano sempre astenuti dalla seduta inaugurale, nel corso della quale il Re leggeva il discorso della corona all'intero Parlamento. Essi prestavano giuramento da soli, alcuni giorni dopo, facendo di tutto per far capire che essi si piegavano a questa esigenza, solo perché una legge, ch'essi ritenevano sciocca, ve li obbligava. In questa circostanza, imbaldanziti dal recente successo elettorale, i socialisti decisero di partecipare alla seduta inaugurale, ed inscenare nel corso di questa manifestazione di ostilità alla corona, in modo che non restasse alcun dubbio circa i loro intendimenti rivoluzionari, ripetutamente dichiarati. Per loro il re d'Italia era da abbattere così come era stato abbattuto lo zar di Russia. Il fascino esercitato dalla rivoluzione bolscevica in Russia era tale da influenzare completamente il loro modo di agire. Essi si erano presentati alle elezioni non per partecipare alla vita politica del Parlamento, bensì per boicottarlo dall'interno, iniziando quell'opera di distruzione, alla quale e per la quale l'intero partito era stato mobilitato. Ma seguiamo a questo punto la descrizione della seduta che Gaetano Salvemini, ci ha lasciato. Egli, nella sua qualità di giornalista, era presente alla stessa. "Il Re - scrive il Salvemini - entrò nell'aula zoppicando, circondato dai principi del sangue, compreso il Duca d'Aosta, tutti molto più alti di lui facendolo quindi sembrare più piccino che mai. I socialisti, in gruppo compatto, coprivano tre settori dell'estrema sinistra. I socialisti di destra, legati alla disciplina di partito, erano insieme ai massimalisti; i pochi repubblicani occupavano i seggi vicino ai socialisti. Il Re aveva appena raggiunto il trono che i socialisti e i repubblicani si alzarono tutti insieme uscendo da una porta laterale, i massimalisti gridando "Viva il socialismo", mentre repubblicani e socialisti di destra si astennero da qualsiasi grido. Poco a poco, via via che uscivano, deputati e senatori degli altri partiti occuparono i loro posti. Il Re, in piedi su uno sgabello preparato davanti al suo seggio perché sembrasse meno piccolo, le mani incrociate su l'impugnatura della spada, cercava, senza riuscirci, di assumere un'aria maestosa; i suoi occhi incerti e sbigottiti sembravan quelli di un cane uscito allora dall'acqua dopo aver corso il rischio di annegare. Cessati i clamori dei deputati uscenti e gli applausi dei deputati e senatori rimasti, la cerimonia potè cominciare concludendosi senza altri incidenti. "Si determinò per le vie di Roma una grande controdimostrazione lealistica, in parte organizzata in parte spontanea: una folla acclamante seguì la berlina dei sovrani all'uscita da Montecitorio e divenne fittissima in piazza del Quirinale. I reali apparvero tre volte al balcone, fra un delirio di applausi. I prossimità di Montecitorio gruppi di studenti e ufficiali malmenarono alcuni deputati socialisti (Vella, Romita, Lucio Serrati, Barberis, Murari), senza conseguenze peggiori di quella grave in sé, dell'offesa a membri del Parlamento. Fatti sanguinosi accaddero, invece, nei due giorni immediatamente successivi. Proclamato uno sciopero generale di protesta a Roma, esteso poi a Milano, Genova, Torino, Bologna, Napoli e molte altre località, scoppiarono dovunque disordini e violenze. Ufficiali in divisa furono presi di mira dagli scioperanti e percorsi duramente; anche giovanissimi studenti delle scuole medie furono picchiati a sangue. A Torino venne assaltato l'Istituto Tecnico; parecchi giovani morirono. A Mantova bande di facinorosi devastarono la stazione ferroviaria e uccisero il proprietario del buffet, assaltarono il tribunale bruciando gli atti dei processi, liberarono i detenuti del carcere e incendiarono l'edificio, misero a sacco i magazzini e le botteghe, spogliando tutti i negozi di armaiolo. Nessuna difesa fu tentata dalla forza pubblica: 48 ore dopo nelle due maggiori città del Nord, Milano e Torino, i funerali di un carabiniere e di uno studente uccisi risultarono imponentissimi, con tutto l'aspetto di una controdimostrazione politica. Abbiamo visto e considerato come la nuova struttura del Parlamento non consentisse alcuna organica maggioranza, senza l'apporto determinante di voti di uno dei nuovi partiti di massa, cioè o dei socialisti o dei popolari. Il nuovo Parlamento elesse nuovamente a Presidente del Consiglio dei ministri I'on. Nitti, il quale riuscì a raccogliere intorno a se la corrente giolittiana ed i popolari, che dettero soltanto un appoggio esterno, senza partecipare direttamente al governo. Sicchè mentre la sedizione militare serpeggiava tra le file dell'esercito si rendeva sempre più difficile, in un momento in cui ci sarebbe stato bisogno di governo forte ed in grado di governare con energia, si varava un ministero raccogliticcio, privo di una effettiva ed omogenea maggioranza parlamentare. In pratica il Parlamento non dava alcun effettivo potere al governo Nitti, che dovette quindi vivere la sua vita stentatamente, cercando con ogni mezzo di evitare il confronto diretto con le altre forze politiche. Nitti avrebbe dovuto invece affrontarle direttamente, costringendole ad impegnarsi seriamente nel programmi, che con urgenza l'Italia richiedeva. Di conseguenza il governo Nitti, al fine di provvedere alle esigenze più urgenti del Paese, fu costretto a fare ricorso con grande frequenza allo strumento del decreto legge, evitando accuratamente il confronto diretto col Parlamento.

17) MUSSOLINI DOPO LA SCONFITTA ELETTORALE

La straordinaria vittoria creò nel partito socialista gravi problemi. Nella realtà neppure gli stessi socialisti supponevano di ottenere una simile vittoria, per cui si trovarono del tutto lmpreparati ad assumere una precisa posizione politica dopo le elezioni. Mussolini, dopo la sconfitta elettorale, superato un momento di grave smarrimento che lo indusse quasi a "cambiar mestiere" ad abbandonare per sempre la politica, comprese subito con vero senso profetico le effettive difficoltà che i socialisti avrebbero incontrato nell'amministrare la grande vittoria. Innanzitutto vi era il problema che molti dei deputati socialisti eletti non erano affatto all'altezza della situazione; spesso erano uomini rozzi ed ignoranti, del tutto digiuni di politica, per i quali contava soltanto la tanto sbandierata insegna rivoluzionaria. In secondo luogo c'era il grave problema della profonda divisione del partito me nessun esponente del partito socialista era dotato di spirito d'azione tale da consentire una svolta pragrnatica alla crisi che attanagliava il Paese. Mussolini in un suo articolo, pubblicato il 21 novembre del '19 sul "Popolo d'Italia", puntualizzò con grande acume la nuova situazione parlamentare italiana. Egli comprese che "senza la guerra il partito socialista (per il quale Mussolini aveva coniato il terminee spregiativo di pus, cioè di partito unificato socialista, ma con chiara allusione offensiva) non avrebbe potuto, non diciamo realizzare, ma soltanto sperare le vittorie odierne". Dopo questa premessa Mussolini analizzò acutamente la nuova situazione politica determinatasi col voto del' 19. "Dal punto di vista strettamente politico, la valanga socialista può essere molto meno stritolatrice di quanto non sembri e potrebbe finire per stritolare e frantumare se stessa. Niente c'è di definitivo nel mondo, ma le cose meno definitive di questo mondo sono le vittorie elettorali. Anzitutto c' è una sproporzione grandissima fra le forze reali del partito e massa elettorale. Il partito arriva si e no ai 100 mila iscritti, dei quali 20 mila sono da considerare inefficienti, perchè "dimenticarono" persino di farsi rappresentare al Congresso Nazionale di Bologna, la massa elettorale tocca forse la cifra di due milioni di individui. Questa sproporzione... è motivo di preoccupazioni... Ci sono vittorie chè schiacciano come le sconfitte. Queste sotto il peso delle rovine; quelle soto il peso, talora più ingente, delle responsabilità. In secondo luogo il nuovo Gruppo Parlamentare Socialista non è omogeneo nella sua composizione, non è unanime per ciò che riguarda i metodi ed è anche diviso per ciò che ha attinenza cogli obiettivi supremi." ln effetti la diagnosi politica di Mussolini si rivelò, in prosieguo di tempo,molto esatta ed acuta, e, diremo meglio, preveggente. Il 17 novembre si svolse a Milano un coro socialista per celebrare la grande vittoria elettorale. Nel corso dello stesso fu lanciata sui manifestanti una bomba, che eplose, provocando nove feriti. L 'indignazione socialista fu enorme, sicchè le autorità di polizia furono costrette ad agire effettuando delle perquisizioni. Nel corso di una d'esse furono trovate armi, sia pistole che bombe, presso la sede del "Popolo d 'Italia" in via Cannobio. Fu quindi arrestato Mussolini insieme a Marinetti e Ferruccio Vecchi. S'intraprese quindi un'azione giudiziaria contro questo terzetto per costituzione di un corpo armato al fine di commettere delitti contro le persone. Essendo tuttavia gli indizi contro Mussolini molto labili ne fu decisa la scarcerazione. Quanto al procedimento penale, questo andò avanti con la solita lentezza della giustizia italiana, sicchè, quando si pervenne alle conclusioni, si era già nel '22, Mussolini era già deputato e la procedura si arenò innanzi alla solita richiesta di autorizzazione a procedere. Pochi mesi più tardi si ebbe la marcia su Roma e ovviamente dopo di allora nessuno parlò più della faccenda. NeI dicembre del '19 Mussolini sembrò tornare ai suoi amori anarchici. Eccolo allora affermare la sua fede di "eretico" sia della fede cattolica che di quella marxista. Poi eccolo incontrare l'anarchico Malatesta, tornato in Italia grazie all'aiuto del capitano Giulietti, già capo della "Federazione italiana dei lavoratori del mare" e collaboratore prezioso di D'Annunzio per alcune sue imprese "piratesche". Comunque MussoIini comprese assai bene iI tunnel cieco in cui i socialisti, ubriachi di dottrine rivoluzionarie, s'erano cacciati. "I selvaggi (così egli chiamava gli estremisti del partito socialista, seguaci di Nicola Bombacci) si sono un po' troppo compromessi davanti alle turbe elettorali. Hanno promesso troppo e a troppo breve scadenza hanno gridato troppo: Viva Lenin e viva la Russia: hanno agitato troppo dinnanzi aIle masse, il programma del comunismo immediato, da realizzarsi il mercoledì successivo alle elezioni (siamo già al venerdì... non si vede nulla!) per poter fare macchina indietro. Se il massimalismo italiano non paga la sua cambiale, il popolino la protesterà e allora saran pasticci... E' evidente e il massimalismo si esaurirà nello sforzo di sostituire la facile frase rivoluzionaria alI'impossibile fatto rivoluzionario." Inoltre continuarono i giusti attacchi di Mussolini contro la censura sulla stampa, che reintrodotta da Nitti, secondo Mussolini "senza plausibili motivi d'ordine pubblico", rimaneva a esplicare la sua "odiosa funzione". Ciò consentiva a Mussolini di ribadire "le responsabilità e le colpe" di Nitti; "che appare sempre più nettamente come l'agente disintegratore e corruttore di tutte le forze nazionali". In effetti la situazione dell'ordine pubblico era gravissima; tuttavia sbagliava Nitti a sperare di poter arginare l' ondata di violenza di piazza e di sedizione militare con un provvedimento poziesco e reazionario, che poteva soltanto rendere più aspra la competizione e di certo non poteva calmare e pacificare gli animi. Continuava infine la passion fiumana di Mussolini che affermava la sua posizione antitetica a quella socialista, che a suo parere diffamava i legionari fiumani. Sicchè, malgrado la dura sconfitta elettorale, Mussolini dimostrava in quel momento, essere il più acuto ed intelligente uomo politico italiano e sopratutto il più lungimirante. Egli comprese perfettamente, probabilmente agevolato in ciò dal fatto di essere stato per molti anni un militante ed un dirigente del partito socialista, le profonde incongruenze di questo partito. Comprese la profonda divisione che lo dilaniava, comprese infine che le speranze rivoluzionarie dei socialisti erano utopiche. Durante le elezioni tutto sommato la stragrande maggioranza del popolo italiano s'era dimostrata pratica e di certo non animata da sentimenti rivoluzionari. "Non è la rivoluzione - diceva Mussolini - non è la rivolta: è il ballo di san Vito dell'incosciente epilessia massimalista". E Turati aggiungeva - parlando dei massimalisti - "Non sanno ch'e l'ingiuria e il chiasso. Sarebbe come pretendere che le oche facessero altro che qua qua…" Certamente in quel momento della storia d'Italia Turati e Mussolini, schierati su opposte barricate, erano tuttavia gli uomini politici di maggiori capacità; tuttavia, mentre Turati era incapace d'agire, ed era poco pragmatico, al contrario Mussolini aveva fatto dell'azione lo scopo della sua vita: e proprio da ciò derivò il suo successo.

18) L'OPERATO DEL II GOVERNO NITTI

Malgrado tutte le difficoltà obiettive, il governo Nitti si mise all'opera per tentare almeno di risolvere in parte i gravi problemi che attanagliavano l'Italia. I maggiori fra questi erano:
1) la grave crisi economica, che provocava una inflazione gravissima della lira, disoccupazione e continua crescita dei prezzi; questi ultimi erano talmente cresciuti che s'impose la necessità, per salvaguardare almeno in parte le categorie più deboli, del prezzo politico del pane al dettaglio;
2) dalla grave crisi economica, che provocava malcontento in vasti strati della popolazione, discendeva come conseguenza naturale il problema dell'ordine pubblico; l'Italia continuamente tormentata da scioperi spesso con epiloghi tragici, ma oltre a ciò da violente manifestazioni di piazza, devastazioni di negozi di generi alimentari, occupazioni di fabbriche, assisteva senza riuscire a porvi alcun rimedio a continui attentati all'ordine pubblico ed alla sicurezza stessa dello stato;
3) infine restava la questione internazionale, cioè la conclusione delle trattative con gli alleati; dell'aiuto economico di questi ultimi, per uscire dal tunnel della crisi economica, l'Italia aveva assoluto bisogno.A tutto ciò si aggiungeva la sedizione militare di Fiume, che permaneva, e di certo non contribuiva a rasserenare gli animi.
Tutti questi problemi erano comunque tra di loro strettamente legati. E Nitti quindi ritenne giustamente che due fossero le questioni da risolvere prioritariamente: la questione internazionale, per la quale si iniziarono trattative dirette con gli jugoslavi; e misure economiche per uscire dalla grave crisi economica, in cui il paese ormai da tempo versava. Risolvere la crisi internazionale avrebbe consentito di attingere a prestiti internazionali e di conseguenza ciò avrebbe consentito di risolvere con facilità tutti gli altri problemi. Malgrado le critiche quindi mosse in seguito a Nitti, a noi pare che'egli agisse nel migliore dei modi; cioè tentando prioritariamente di risolvere la questione internazionale. Qualcuno ha criticato ferocemente Nitti per non aver saputo arginare il disordine pubblico, cioè di scarsa energia nel mantenimento dell'ordine. Ma se i tumulti, gli scioperi ecc. si ammette che fossero generati dai gravi problemi economici, e se si ammette che questi ultimi avevano la loro origine anche e soprattutto dal mancato aiuto finanziario da parte degli alleati, risulta evidente che risolvere detti problemi internazionali con gli alleati, avrebbe voluto dire risolvere anche i conseguenti problemi economici, e quindi infine anche quelli dell'ordine pubblico. Invece, dopo aver avviato con intelligenza e sagacia l'opera di ricostruzione, i partiti democratici passarono la mano a Mussolini, che avendo trovato già risolti i problemi internazionali ed in via di soluzione quelli economici, potè in pochi anni raccogliere i frutti degli sforzi e del lavoro dei suoi ottimi predecessori, con conseguente aumento di prestigio per il suo regime. Ma il governo Nitti va anche ricordato per gli sforzi da esso compiuto nella legislazione sociale: basterà ricordare infatti il decreto legge che nell'ottobre del '19 istituì l'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione; il progetto di legge governativo, respinto purtroppo dal parlamento, per l'introduzione della giornata lavorativa di otto ore; l'estensione dell'assicurazione obbligatoria, della quale già godevano sin dal 1898 gli operai, anche ai braccianti agricoli; infine ricorderemo l'istituzione dell'assicurazione obbligatoria sull'invalidità e vecchiaia. Sono misure sociali che non hanno bisogno di molti commenti; la loro importanza è lampante ed i socialisti, se avessero avuto un po' di sale in zucca, avrebbero dovuto dare il loro pieno appoggio ad un simile governo; invece tutte queste importanti conquiste passarono in secondo ordine; ai socialisti importava soltanto la rivoluzione e la sovietizzazione della società italiana. Il governo Nitti riuscì a vivere stentamente per sette mesi, e nel corso degli stessi fu costretto ad affrontare una serie di scioperi e di agitazioni, quali l'Italia non aveva più visto dal 1898. In gennaio si ebbe lo sciopero dei ferrovieri e dei postelegrafonici. Questi scioperi provocarono grandissimi disagi al paese ed alla fine si conclusero con la concessione d'importanti miglioramenti alla categoria. Nel corso dello sciopero, al fine di garantire un minimo di servizi, fu necessario fare scortare dai soldati i ferrovieri, che intendevano egualmente lavorare, mentre fu necessario, presidiare l'intera rete di binari, fatti oggetto di ripetuti sabotaggi ed attentati. forte di ben 2 mila uomini. In particolare contro di essa si accanirono i socialisti ufficiali, che ripeterono all'infinito nel parlamento e fuori d'esso la loro protesta contro un corpo, ch'essi ritenevano creato apposta contro di loro. Mentre i socialisti sfasciavano l'Italia dal profilo industriale, manovrando le masse degli operai e dei lavoratori degli stabilimenti, i popolari ed i combattenti sfasciavano l'Italia rurale, appoggiando le organizzazioni contadine che volevano l'occupazione delle terre e quindi terra ai contadini. Ovviamente però l'Italia non era di certo la Russia zarista. In Italia non esistevano, o comunque erano limitati ad alcune zone geografiche, quali ad esempio la Sicilia occidentale, i latifondi. In ogni caso il latifondo italiano era minuscolo rispetto a quello dei nobili russi, spesso proprietari di latifondi, grandi quanto intere regioni italiane. Sicchè, essendo la terra in Italia già spezzettata e divisa tra tanti piccoli proprietari, l'occupazione delle terre non potè assumere aspetti particolarmente allarmanti, e fu limitata quasi esclusivamente al meridione ed in particolare alla Sicilia. L'episodio più clamoroso si verificò infatti a Ribera, in provincia di Palermo, dove il latifondista del luogo, il duca di Bivona, fu tenuto prigioniero dai contadini per diversi giorni sino a quando non si piegò a sottoscrivere le loro richieste. Invano il governo cercò di porre un freno al fenomeno, decretando la legittima occupazione delle terre, purchè non coltivate o scarsamente coltivate (ma terre del genere quasi non esistevano, perchè se una terra era incolta era quasi sempre impossibile coltivarla). Avrebbe invece dovuto molto far pensare sia il governo, sia le forze politiche, quanto si iniziava a verificare in diverse città d'Italia. Innanzi alla abdicazione al potete da parte delle autorità costituite, si andarono formando in Italia delle organizzazioni volontarie di privati cittadini, con lo scopo di mantenere l'ordine pubblico e di provvedere ad alcuni servizi essenziali, che il continuo scioperare rendeva inesistenti. Sicchè "squadre di cittadini privati provvidero al servizio di smistamento e di recapito della corrispondenza in occasione dello sciopero dei postelegrafonici; e un concorso analogo, ma anche più importante, si ebbe per supplire ai ferrovieri scioperanti... A Milano.. il prefetto decretò l'istituzione, nella città e provincia, di un corpo di volontari dell'ordine per coadiuvare gli agenti nella prevenzione e repressione dei reati contro le proprietà o le persone." Nel marzo del 1920 ci fu un tentativo, che se fosse giunto in porto, sarebbe stato oltremodo pericoloso per la democrazia it-liana: fu infatti tentata la fusione rivoluzionaria dei movimenti sovversivi dei nazionalisti, dei socialisti e degli anarchici. Auspici di questa eterogenea fusione, il capitano Giulietti, l'anarchico Malatesta ed il sindacalista De Ambris, ispiratore principale a quel tempo della costituzione fiumana, ancora oggi ammirata per le profonde novità socialiche sanciva e per la modernità complessiva dell'impostazione. Tuttavia questi uomini erano troppo diversi tra di loro perchè il tentativo potesse sortire un qualsivoglia risultato positivo, sicchè falli miseramente. Mussolini, venuto a conoscenza del complotto, lo svelò ai lettori de "Il Popolo d'Italia", ridicolizzando il tentativo da lui definito "operetta nell'epopea". Permanendo la gravità della situazione economica e di conseguenza dell'ordine pubblico, il governo Nitti fu costretto, al fine di fronteggiare la situazione, ad impiegare massicciamente le forze di polizia, e la nuova Guardia Regia, che si distinse nelle azioni di repressione dei disordini popolari. Il risultato di questa latente guerra civile, fu nel giro di un anno, dall'aprile del '19 all' aprile del '20, un totale di ben 145 morti e di 444 feriti, destinati ad aumentare nei mesi successivi. Queste vittime non erano state provocate dai fascisti. Questi ultimi ancora contavano molto poco; si ammazzavano invece vicendevolmente e volentieri gli altri: gli scontri più violenti si avevano quasi sempre tra socialisti e popolari, con conseguente intervento della forza pubblica, che adoperando più del dovuto e troppo spesso le armi, provocava numerose vittime. Il lavoro più importante che Nitti riuscì a sviluppare fu nell'ambito della politica estera. In proposito restavano aperte numerose questioni. A Tittoni era succeduto Scialoja; già nel gennaio del 1920, subito dopo il voto di fiducia del Parlamento, Nitti tornò a Parigi per riallacciare le trattative, riguardo la questione adriatica. Scialoja lo aveva preceduto, compiendo già un giro informativo nelle principali capitali europee, sempre alla ricerca di un compromesso soddisfacente. La situazione adesso andava evolvendosi in senso favorevole all'Italia, sicchè già il 9 gennaio venne accettata dagli alleati la proposta italiana di giungere ad una soluzione della questione fiumana attraverso un compromesso: esso consisteva nell'accettazione di Fiume, Stato libero, ma non collegato, come pretendeva l'Italia, direttamente all'Italia attraverso una striscia di territorio; Cherso sarebbe stata assegnata allo Stato libero di Fiume; l'hinterland ed il porto di Susak sarebbe stato assegnato alla Jugoslavia; Zara sarebbe stata amministrata dalla Società delle Nazioni. Come si vede la posizione di Francia ed Inghilterra era notevolmente mutata, avvicinandosi a quella italiana, ed abbandonando la rigida pregiudiziale di Wilson. Ciò era dovuto al fatto che era ormai chiaro che, a causa dell'opposizione interna, Wilson sarebbe a breve scadenza scomparso dalla scena politica, sicchè la sua tesi non otteneva più l'appoggio incondizionato degli altri alleati. Erano inoltre maturi i tempi perchè iniziassero delle trattative dirette tra Italia e Jugoslavia. Era infatti evidente che se la Jugoslavia avesse accettato nuove frontiere d'accordo con l'Italia, agli alleati non sarebbe rimasto da far altro che prendere atto della nuova situazione politica determinatasi per volontà dei due stati direttamente interessati all'intera questione. Lo stesso 9 gennaio Nitti, assistito da Scialoja, s'incontrò con il leader jugoslavo Ante Trumbic. Nitti espose il suo piano, che venne però subito respinto da Trumbic, il quale riteneva che l'unica soluzione accettabile consistesse in una linea di confine da Monte Maggiore a Punta Fianona, per cui l'Adriatico occidentale sarebbe stato tutto italiano, mentre tutto l'Adriatico orientale sarebbe stato iugoslavo. Ovviamente questo primo incontro non potè sortire alcun risultato concreto, e tutto fu quindi rimandato a tempi migliori. Il giorno 13 infine, in base alle controproposte dell'Italia, che chiedeva la continuità territoriale con Fiume, si giunse all'accordo fra italiani, francesi ed inglesi, in base al quale si accettava anche la richiesta italiana della continuità territoriale con la città di Fiume. Questo compromesso assunse quindi il nome di "compromesso Nitti". La delegazione jugoslava, alla quale era stato comunicato il contenuto del compromesso, lo respinse decisamente, facendosi forte dell'appoggio americano alla sua tesi. Infatti di lì a poco giunse la protesta di Wilson, che continuava a non accettare l'idea di alcun compromesso, e che di conseguen-za respingeva indignato il compromesso italo-franco-britannico. Giunsero "numerose note estremamente dure di Wilson, il quale rimproverava all'Inghilterra e alla Francia di volerlo porre di fionte a un fatto compiuto e di appoggiare proposte che avrebbero sostenuto l'ingiustizia contro le esigenze della giustizia." Ma ormai le idee di Wilson trovavano poco seguito: era infatti a tutti ben nota l'ostilità interna, che stava per travolgerlo; sicchè, malgrado il parere contrario di Wilson, e malgrado l'opposizione jugoslava, il 14 gennaio Lloyd George e Clemenceau s'incontrarono con la delegazione jugoslava, della quale facevano parte Pasic e Trumbic, ed a questi presentarono una nuova definitiva proposta, ponendo loro l'alternativa di decidersi tra l'accettazione del compromesso e l'applicazione del Patto di Londra. I rappresentanti jugoslavi chiesero allora qualche giorno per poter rispondere dopo aver consultato il loro Governo. La nuova proposta alleata era identica a quella del giorno avanti, con questa unica differenza, che il Corpus separatum, invece di essere assegnato in sovranità all'Italia, doveva costituire uno Stato indipendente sotto la garanzia della Società delle Nazioni, e col diritto di scegliersi la propria rappresentanza diplomatica." Il giorno 20 Pasic e Trumbic dettero la loro risposta che ancora una volta respingeva in molti punti fondamentali le richieste degli alleati per l'Italia. Nel pomeriggio dello stesso giorno 20 gli alleati.si riunirono per esaminare la situazione alla luce della risposta jugoslava. Nitti prese allora la parola, facendo, presente che, considerata l'ostinazione jugoslava a non accettare alcuna forma di compromesso, l'Italia chiedeva la piena applicazione del Patto di Londra. Gli alleati accettarono a questo punto l'idea di Nitti e decisero quindi di chiamare i delegati jugoslavi e dettare loro un vero ultimatum: o il compromesso offerto dagli alleati, ovvero la completa applicazione del Patto di Londra; la Jugoslavia doveva dare la sua risposta entro otto giorni da quella data. La Jugoslavia prese però ancora tempo: fece infatti finta di non comprendere che le proposte alleate avevano la forma di un ultimatum, e chiese ancora tempo per potere decidere dopo aver esaminato nei dettagli l'intera questione. Frattanto Clemenceau, battuto alle elezioni, lasciava il governo nelle mani del suo successore Millerand. Ciò complicava le cose per l'Italia, che era già riuscita a rendersi amica del presidente Clemenceau, e che adesso doveva sperare in altrettanta benevolenza da parte di Millerand. A favorire tuttavia le aspirazioni italiane contribuiva parecchio la scarsa popolarità del presidente Wilson negli Stati Uniti. Il presidente era infatti in una posizione sempre "più debole, incerta, vacillante". La stessa "stampa americana alla quasi unanimità commentava favorevolmente la soluzione della questione adriatica prospettata attraverso l'ultimo progetto di Nitti". Malgrado comunque il completo isolamento politico, e l'ostilità anche della pubblica opinione americana, Wilson si intestardì a continuare la sua opposizione alle aspirazioni italiane: egli era convinto che le concessioni già fatte fossero il massimo possibile e che francesi ed inglesi avessero letteralmente capitolato innanzi al punto di vista italiano. Sicchè la Jugoslavia, facendosi forte dell'appoggio del presidente americano, potè continuare a procrastinare l'accettazione delle proposte alleate, ed i mesi trascorsero in messaggi polemici tra il presidente Wilson da un lato ed i restanti alleati dall'altro. Nella realtà dei fatti Trumbic si era reso conto che l'Italia voleva a parole l'applicazione del Patto di Londra, ma che nella realtà faceva pressioni sugli alleati perchè costringessero la Jugoslavia ad accettare il compromesso. L'applicazione del Patto di Londra infatti avrebbe costretto l'Italia ad abbandonare Fiume nelle mani degli jugoslavi, e Trumbic si era ben reso conto che quella era l'ultima cosa che Nitti volesse, e che eventualmente fosse in grado di fare. Al fine di tentare di sbloccare la situazione, gli alleati tornarono ad incontrarsi a Londra nel mese di febbraio. La Conferenza, apertasi il giorno 12, si protrasse per diversi giorni, e consentì la soluzione di diversi problemi: ed esattamente quelli riguardanti il processo agli ufficiali tedeschi, quelli riguardanti l'atteggiamento da tenere nei confronti della Russia sovietica, i rapporti con la Turchia, l'Asia Minore e le isole del Dodecanneso. Mentre, per l'opposizione di Wilson, non fu possibile giungere ad una immediata soluzione del problema adriatico. Sin da allora Nitti comprese che era necessario raggiungere un compromesso direttamente con la Jugoslavia, in tal modo gli americani non avrebbero più avuto nulla da obiettare. Sicchè, rientràto Nitti in Italia dalla Conferenza, da quel momento si iniziò la preparazione di un incontro con una delegazione jugoslava, al fine di poter giungere, attraverso trattative dirette, ad un compromesso. Dopo vari altri contatti diplomatici, italiani e jugoslavi s'incontrarono a Pallanza, per un primo tentativo di giungere ad un accordo. Ai colloqui di Pallanza parteciparono per l'Italia Scialoja ed il Capo di Gabinetto Garbasso, per la Jugoslavia Pasic e Trumbic. Ormai la Jugoslavia era disposta a cedere a quasi tutte le pretese italiane, essendosi resa conto di non potere più contare su un valido aiuto da parte americana. La discussione infatti fu proficua e seppure necessariamente nel vago, pose le basi di un accordo tra i due paesi. Le due delegazioni decisero quindi d'incontrarsi nuovamente il seguente giorno 11. Ma proprio quel giorno, il secondo Governo Nitti cadde su una mozione socialista e popolare, riguardante lo sciopero dei postelegrafonici. Nitti decise allora di sospendere le trattative con la Jugoslavia. La caduta del Governo Nitti provocò, una vera ondata di entusiasmo tra gli estremisti sia di destra che di sinistra. Gli insulti contro lo statista si moltiplicarono, spesso dimostrando un certo qual gusto macabro, con annunci mortuari e funerali, seguiti da cortei con forche e feretro. Quello stesso giorno 11 a Trieste vennero organizzate militarmente le prime squadre fasciste. L' Italia celebrava in realtà il funerale alla democrazia.

19) 11 MAGGIO - 11 GIUGNO 192: L'ITALIA NEL CAOS POLITICO E SOCIALE

Il secondo Governo Nitti era caduto per volontà soprattutto dei popolari. Quest'ultimi, privi di effettiva esperienza politica, ritenevano che il Governo si fosse dimostrato debole contro le intemperanze dei socialisti contro i cattolici-popolari. Abbiamo già riferito dei continui attacchi socialisti contro i popolari: ebbene questi assalti continuavano e si concludevano spesso con vittime. 
Caduto quindi Nitti si pose il problema di formare un nuovo Governo. I popolari pensavano ad un governo forte; i socialisti erano indifferenti al problema: essi attendevano la rivoluzione. Si faceva sempre più probabile il nome di Giolitti, come successore di Nitti; ma l'opposizione di don Sturzo, che riteneva Giolitti troppo laico, fecero per allora accantonare la sua candidatura. Si pose allora la candidatura di Bonomi, ma quest'ultimo aveva il grave precedente d'essere stato interventista, mentre di lui si ricordava l'errata profezia, secondo la quale la guerra sarebbe durata soltanto qualche mese. Il re, fatte le solite consultazioni del periodo di crisi, incaricò del governo Bonomi. Ma questi, consultati i partiti, resosi conto di essere del tutto isolato, rinunciò all'incarico. Escluso allora, Giolitti, Bonomi e Meda, al quale negava il suo appoggio il settore liberale del Parlamento, non rimase da far altro che riaffidare l'incarico di formare il Governo a Nitti. Questa volta entrarono a far parte di questo anche alcuni popolari: Rodinò alla Guerra, Micheli all'Agricoltura, Scialoja nuovamente agli Esteri, Schanzer al Tesoro, De Nava alle Finanze. 
Questo governo riuscì a rimanere in carica per un solo mese, nel corso del quale ebbe tanti di quei guai da sbrigare, che qualsiasi altra formazione politica probabilmente non avrebbe egualmente potuto resistere oltre. Pochi giorni dopo l'insediamento del nuovo Governo, si verificarono a Roma gravissimi incidenti tra studenti e guardie regie. Vi furono numerosi morti e l'opinione pubblica ne fu gravemente turbata. Non giovò oltre alla vita del nuovo Governo l'atteggiamento di Giolitti, il quale se non direttamente, tuttavia tramite i suoi tirapiedi, lanciava accuse contro il povero Nitti. Ormai egli governava l'Italia tra lo scontento generale. Sicchè il Governo condusse vita molto stentata e tormentata ancora per circa un mese. Infine il 4 giugno, spinto dalla necessità di chiudere, almeno in parte, la falla aperta dal prezzo politico del pane, Nitti decise l'aumento del prezzo del pane a lire 1,50 al chilogrammo, con una indennità per i più poveri, ed una tassa di compensazione sugli agiati. Il provvedimento, necessario e giusto nel suo complesso, ebbe la virtù di coalizzare tutti contro Nitti. L'ondata d'impopolarità, alla quale non erano estranee le manovre di Giolitti, ed i continui attacchi portati dall'estrema destra, crebbe a dismisura, e, dopo un'altra serie di gravi incidenti, scoppiati in diverse grandi città, costrinse il presidente al ritiro del provvedimento, ed il Governo alle dimissioni.

20) GIOLITTI AL GOVERNO PER L'ULTIMA VOLTA

Adesso tutti furono concordi nel rivolgere lo sguardo verso il vecchio leader politico, sicchè, già il giorno 11, Giovanni Giolitti ricevette l'incarico di formare il nuovo Governo. Egli accettò, e fu quindi in grado in pochi giorni di presentare il nuovo Governo al Parlamento. Fecero parte dell'ultimo governo Giolitti: il popolare Meda al Tesoro; Bonomi alla Guerra; Sforza agli Esteri; Benedetto Croce alla Istruzione. Nel complesso, volendo giudicare questo governo, apparve subito come posto più a destra di quello nittiano, ciò a causa della perdurante opposizione socialista, che rifiutava qualsiasi forma di collaborazione al governo. Il programma del nuovo Governo fu il seguente: in politica estera il proseguimento degli sforzi dei precedenti Governi, tendenti a risolvere la questione adriatica e tendenti a creare uno stato di buon vicinato con tutti i popoli confinanti; in politica interna rafforzamento del Parlamento, con l'abbandono definitivo del malvezzo dei decreti-legge; modifica dell'articolo 5 dello Statuto, per cui eventuali dichiarazioni di guerra avrebbero dovuto essere autorizzate dal Parlamento; in politica economica: nominatività dei titoli, tassazione progressiva ed espropriazione dei profitti di guerra, aumento progressivo delle tasse di successione, aumento delle tasse in generale. Scopo della politica economica del governo: riuscire a frenare l'inflazione ormai giunta a li-velli preoccupanti, quasi da bancarotta. Il Parlamento, malgrado la situazione italiana richiedesse la massima celerità, se la prese comoda, e soltanto il 9 luglio si ebbe il voto di fiducia al Governo, che riuscì a passare con larga maggioranza. Frattanto continuava a permanere nel Paese una situazione dell'ordine pubblico molto difficile e tesa. Continuarono gli scioperi in varie città italiane, mentre il fatto nuovo fu costituito dall'ammutinamento, avvenuto ad Ancona, di reparti dell'esercito. Reparti di bersaglieri, pronti per partire per l'Albania, si rifiutarono di muoversi, aggravando la situazione di sedizione e di ammutinaiùento, che già da tempo serpeggiava nell'esercito. La gravità della sedizione militare consisteva appunto nella chiara dimostrazione che ormai il Governo era nell'impossibilità di potere fare pieno e completo affidamento sull'esercito, qualora le circostanze lo avessero richiesto. Continuarono inoltre le plateali dichiarazioni rivoluzionarie dei socialisti, ai quali facevano eco i discorsi dell'anarchico Malatesta, che, profondamente convinto della "anarchia" quale unica dignitosa forma politica, si schierò anche contro i consigli degli operai e dei contadini, forma borghese antirivoluzionaria. I ferrovieri avevano adesso presa l'abitudine di rifiutare il trasporto della forza pubblica. Si giunse all'eccesso di pretendere il fermo del treno fino a quando dallo stesso non fossero scesi tutti i militari, che talvolta viaggiavano soltanto per usufruire di una semplice licenza. Ciò umiliava profondamente i militari, che ritenevano giustamente di avere diritto invece àlla riconoscenza della Patria, e che invece venivano trattati come appestati. Giolitti agì con discrezione, ma con fermezza al fine di eliminare questi abusi ed arbitri. In Albania invece, dove le forze militari si erano ridotte al solo campo trincerato di Valona, Giolitti decise di sgomberarla del tutto, tranne l'isolotto di Saseno, che restava a garantire la neutralizzazione di Valona. Venne quindi rapidamente raggiunto un accordo con l'Albania, della quale si riconosceva l'indipendenza, che l'Italia s'impegnava ad appoggiare. Mussolini su "Il Popolo d'Italia" tuonò contro lo sgombero di Valona, soprattutto perchè l"abbandonammo Valona dopo averla difesa per due mesi; l'abbandoniamo -scriveva Mussolini - perchè non possiamo più tenerla; perchè il capo del Governo italiano ha promesso di non mandare più rinforzi, obbedendo al ricatto del pussismo esternamente anti-nazionalista e anti-italiano. Prima dell'attacco degli insorti, noi avremmo, cedendo Valona, potuto fare la figura degli idealisti (o dei fessi): adesso facciamo la figura dei vinti che si rassegnano alla loro disfatta... Poche migliaia d'insorti albanesi hanno buttato in mare una cosidetta grande Potenza come l'Italia." Nella realtà dei fatti, l'abbandono dell'Albania rientrava in un quadro politico di vasto respiro. Giolitti infatti, d'accordo con il suo ministro per gli Esteri Sforza, intendeva operare attraverso un ampio approfondimento, al fine di ottenere con la Jugoslavia "giusti confini" e rapporti di buon vicinato. E non soltanto la Jugoslavia, bensì tutti i paesi nostri confinanti, avrebbero dovuto èssere cointeressati in questo sistema di pacifica convivenza. Era molto più importante per l'Italia - pensava Giolitti - ottenere giusti confini, piuttosto che un lembo di territorio in più. Vennero quindi riprese, con cautela e con il chiaro programma di giungere ad un notevole approfondimento delle reciproche esigenze, le trattative, interrotte a Pallanza dalla caduta del governo Nitti. Certamente la situazione dell'ordine pubblico lungo tutto il confine orientale italiano, e particolarmente nell'Istria, non era dei più rassicuranti. Fiume continuava ad essere occupata da D'Annunzio, mentre gravi incidenti si verificarono a Spalato. L' 11 luglio gruppi di jugoslavi assalirono gli ufficiali di una nave da guerra italiana, uccidendone il comandante. Il seguente giorno 13 a Trieste, le squadre d'azione fasciste assalirono l'Hotel Balkan, quartier generale degli sloveni, incendiandolo. Assalirono quindi anche l'abitazione del console di Jugoslavia, distrussero la redazione del giornale sloveno "Edinost", esaurendo quindi la loro azione punitiva, con assalti ad abitazioni di numerosi cittadini slavi, abitanti a Trieste. Questa di Trieste fu la prima grande azione punitiva delle squadre d'azione fasciste. Di lì a poco lo squadrismo esploderà, diffondendosi in breve tempo in tutta la Valle Padana. Nel luglio del 1920 una delegazione del Partito socialista, guidata da Serrati, insieme ad una delegazione della Confederazione del lavoro, si recò in Russia, sia per portare un piccolo aiuto ai compagni russi, impegnati nella fase post-rivoluzionaria, sia per visitare il loro "Paradiso". Nulla è peggio della idealizzazione più o meno romantica della realtà: a contatto con essa, spesso la delusione è cocente. La realtà russa era ben diversa da quella che i compagni italiani avevano immaginato: ovunque c'era grande miseria ed il bolscevismo non aveva certamente potuto risolvere in breve tempo problemi, che richiedevano invece le energie ed i mezzi di intere generazioni. La delusione degli italiani fu immensa, e questi, rientrati in Italia, parlarono e raccontarono ciò che avevano visto. Malgrado i gerarchi russi avessero fatto di tutto per non far troppo notare lo stato di miseria del loro paese, questa era troppa perchè potesse essere celata; sicchè gl'italiani se ne accorsero e riferirono al loro ritorno in patria. Per i "rivoluzionari socialisti" fu una vera doccia fredda; il loro Eden era soltanto un mito; la bolscevizzazione della società non era stata in grado di eliminare in breve tempo la miseria del paese, ch'essi s'erano posti a modello. Ma malgrado tutto ciò, l'ala più estrema del Partito socialista, continuava, tramite il suo esponente Bombacci, poi divenuto in seguito fervente fascista, a predicare la rivoluzione. Eppure lo stesso Lenin aveva chiarito la sua idea in proposito: la rivoluzione in Italia era impossibile; perchè chi avrebbe aiutato l'Italia? L'Italia non era la Russia, paese sconfinato, dalle immense risorse. Era un piccolo paese che dipendeva per la sua stessa sopravvivenza dal continuo aiuto, e dai rifornimenti delle potente occidentali, e che avrebbe, qualora la rivoluzione ci fosse stata veramente, subìto un tale brusco abbassamento del tenore di vita, per cui senz' altro alla rivoluzione sarebbe seguita la reazione, tendente a restaurare lo statu quo. Questo continuo stato di tensione pesudo-rivoluzionaria, le continue angherie e sopraffazioni socialiste contro i piccoli borghesi, contro i piccoli proprietari, contro i popolari, avevano frattanto mutato lo stato d'animo dell'elettorato italiano. La prova di ciò si ebbe alle elezioni amministrative, svoltesi nell'autunno del '20. "Nelle elezioni amministrative.., i socialisti conquistarono 2.022 comuni (24,3 per cento); i popolari 1.613 (19,4 per cento); e tutti gli altri partiti che avevano formato blocchi patriottici o antibolscevichi 4.692 (56,3 per cento). In agosto gli operai metallurgici chiesero notevoli aumenti salariali agli industriali, e minacciarono, qualora fossero state disattese le loro richieste, di passare alla tattica dell'ostruzionismo. Questa strana arma di lotta dei lavoratori, che consisteva essenzialmente nell'applicare sino all'esagerazione tutti i regolamenti, impedendo di fatto il normale svolgersi della funzione produttiva dell'azienda, ebbe inizio effettivamente il 20 di agosto; ma presto la situazione precipitò. Essendosi infatti gl'industriali lamentati per atti di violenza e di sabotaggio, svoltisi all'interno degli stabilimenti, ed avendo gli industriali di conseguenza deciso di procedere alla serrata delle fabbriche, i sindacati decisero di passare alla controffensiva, occupando gli opifici e gli stabilimenti industriali. Complessivamente nella sola Milano furono occupate 160 fabbriche di vario tipo; in breve il movimento si estese alle altre città industriali d'italia: il primo settembre a Torino, eppoi via via ad altre importanti località, sedi di notevoli insediamenti industriali. Il tentativo, come già era successo per il passato, intendeva proseguire sulla via dell'organizzazione diretta della produzione; ma i rivoltosi spaventarono con i loro atteggiamenti rozzi i tecnici ed i dirigenti, appartenenti tutti alla media borghesia, sicché questi ultimi abbandonarono gli stabilimenti, rendendo in pratica impossibile la realizzazione dell'esperimento di autogestione. Malgrado l'isolamento nel quale il tentativo viveva, il sindacato non desistette, e decise quindi di continuare l'occupazione delle fabbriche, difendendole da eventuali tentativi di sgombero con guardie rosse e reticolati. Si crearono inoltre, all'interno dei vari stabilmenti occupati, organi vero e proprio governo, battenti moneta e con tribunali del popolo. L'utopia insurrezionale continuava "Lo sbigottimento borghese dovette assumere proporzioni veramente allarmanti... Ma la gestione delle fabbriche abbandonata a se stessa, senza sostegno politico, senza forniture, senza capitali e senza un correlativo controllo sulla produzione agricola... non poteva che fallire nonostante l'ardore dei capi e lo spirito rivoluzionario delle masse. Mancò, per le cautele di Giolitti... anche il fatto clamoroso, cruento, capace di rompere gl'indugi e di sollevare a rivoluzione il paese. I ceti padronali si astennero per impotenza; il governo per calcolo; e gli invasori delle fabbriche, privi di risorse e della collaborazione dei tecnici... finirono per capitolare riprendendo il lavoro agli ordini degli uomini di cui, per una ventina di giorni, ed anche meno, avevano creduto di essersi definitivamente sbarazzati." 
Giolitti si rese conto che contro un movimento così vasto egli non poteva agire con la forza; e ciò per due ordini di motivi: primo perché ci sarebbero stati morti e vittime e ciò avrebbe potuto innescare sangui- nose reazioni, delle quali non era possibile prevedere l'epilogo; in secondo luogo perché, se il governo avesse deciso di impiegare la forza pubblica per sgombrare le fabbriche, avrebbe necessariamente dovuto abbandonare le città e le piazze, che aviebbero potuto diventare teatro di nuovi e più gravi conflitti. Egli quindi, così come aveva fatto nel corso dello sciopero generale del 1904, lasciò che le acque si calmassero da sole, senza interventi violenti. Ai primi di settembre il Governo ebbe contatti con rappresentanti sia degli operai che degl'industriali, al fine di cercare di giungere ad un accordo, consentendo quindi la fine dei gravi disordini. Il primo di ottobre si giunse ad un accordo tra industriali e sindacati operai, secondo il quale era consentito, attraverso i Consigli di fabbrica, un certo qual controllo dei rappresentanti degli operai sulla politica produttiva dell'azienda. Malgrado sostanzialmente i proletari nulla avessero guadagnato da questo vasto movimento di occupazione delle fabbriche, tuttavia la borghesia andava acquisendo la mentalità della categoria in pericolo: essa temeva che un governo debole non fosse in grado di tutelare i suoi interessi, e di conseguenza iniziò ad auspicare un "governo forte" in grado di "mettere a posto i rossi" e di ridare disciplina ad un paese, che sembrava aver perduta la "retta via". Frattanto nell'ambito del Partito socialista si faceva sempre più profonda la spaccatura fra moderati è massimalisti. La corrente socialista di sinistra, tenuto un proprio convegno ad Imola, ribadì la propria intransigenza rivoluzionaria e pubblicò un manifesto, firmato tra gli altri da Bombacci, Bordiga, Gramsci e Terracini, in cui si auspicavà finanche il cambiamento del nome socialista in "comunista". Ci si avviava verso l'inevitabile scissione comunista. Tutto ciò aveva creato quindi una profonda spaccatura tra classe operaia e classe borghese. Gli uni sempre speranzosi di giungere prima o poi alla rivoluzione, gli altri certi di aver sempre dovuto cedere alle esorbitanti richieste del proletariato, per mancanza di un governo forte. "Dopo il settembre del 1920 la classe operaia... si perse d'animo. (Gli industriali), perfettamente organizzati fin dal marzo nella Confindustria, impedirono che venisse attuata qualsiasi misura concreta per l'isti-tuzione ufficiale dei Consigli di fabbrica. Come dichiarò l'energico presidente della Confindustria, Gino Olivetti, era in giuoco il problema vitale del potere nella fabbrica... Nel settembre del 1920 gli industriali avevano visto sventolare le bandiere rosse sulle loro fabbriche, ed ora erano ben decisi a vendicarsi".
Per altro questo sentimento di vendetta era provocato anche dall'atteggiamento grossolano e spesso brutale, con tragici epiloghi delinquenziali, tenuto dagli occupanti delle fabbriche. Nel corso, infatti, dell'occupazione furono uccisi freddamente, soprattutto in Piemonte, diversi "nemici del popolo". Tutto ciò scosse profondamente l'opinione pubblica, che ebbe modo di rendersi conto di cosa volesse dire governo della teppaglia ignorante ed irresponsabile. Tra gli uccisi ricorderemo "il vice brigadiere Dore, il giovane Mario Sonzini, i miseri secondini Santagata, Lombardi, Sirma e Crimi, furono presi e giustiziati, quando uccisi a fucilate perché colti a passare, isolatamente, davanti ai cancelli vigilati dalle guardie rosse. Tipico il caso Scimula: "La sera del 22 settembre il picchetto operaio che montava la guardia alla fabbrica Bevilacqua vide passare davanti ai cancelli un individuo riconosciuto come un secondino delle carceri; fermato e richiesto delle carte, rifiutò di mostrarle; venne allora perquisito e trovato in possesso di una carta di identità dalla quale risultavano il nome e la qulifica: Ernesto Scimula, guardia alle Carceri Nuove. Tradotto al terzo piano davanti al tribunale, di cui facevano parte anche alcune giovani donne, fu condannato ad essere bruciato vivo nell'alto forno". E poiché la sentenza risultava inesiguibile, essendo spenti gli alti forni, lo Scimula fu ucciso a revolverate. L' "Avanti!" nei giorni successivi, senza negare i fatti, si appellava alla giustizia di classe." Mussolini dapprima cercò di strumentalizzare a suo favore la lotta operaia, che aveva dato luogo alla occupazione delle fabbriche. Tuttavia, fallito il suo tentativo. di ap-profittare dell'occasione a scopo personale, e guardò, attraverso i suoi articoli su "Il Popolo d'Italia", con simpatia i moti operai di occupazione delle fabbriche. Tutto ciò che turbava l'ordine pubblico, giustamente egli pensava, tornava comodo alla sua politica. In politica estera il Governo Giolitti riprese quei contatti con la Jugoslavia, che iniziati da Nitti, erano stati interrotti dalla caduta del governo. Adesso l.e posizioni italiane e jugoslave si andarono sempre più avvicinando. Per altro Wilson non era più in grado di proteggere adeguatamente i suoi alleati slavi; contemporaneamente Francia e Gran Bretagna esercitarono notevoli pressioni sul governo di Belgrado per indurlo ad accettare, almeno nelle linee fondamentali, le richieste italiane. A tutto questo si aggiunsero gli sforzi costanti ed intelligenti del ministro per gli Esteri Sforza, che riuscì alla fine a spuntare concessioni dagli jugoslavi di tale entità che gli stessi nazionalisti e gli stessi fascisti dovettero definire come ottimo il trattato che si andava delineando tra i due paesi. Le trattative furono lunghe, ma alla fine si giunse ad un accordo definitivo tra governo italiano e governo jugoslavo. Il trattato di Rapallo, firmato il 12 no-vembre del 1920, dal ministro Sforza per l'Italia e da Trumbic per la Jugoslavia, vide i due paesi impegnarsi alla esecuzione delle clausole del Trattato di Versailles e del Trianon "e a prendere tutte le misure atte a impedire il ritorno degli Absburgo in Austria. (In quel periodo vi erano stati almeno due tentativi dell'imperatore Carlo di restaurare la monarchia asburgica a Vienna) All'Italia veniva riconosciuto tutto il confine alpino della Venezia Giulia fino al mònte Nevoso, mentre la Jugoslavia otteneva in compenso la parte della Dalmazia attribuita all'Italia dal Trattato di Londra del 26/5/1915, eccettuate le città di Zara e le isole Lagosta, Pelagosa, Cherso e Lussino. Inoltre la Jugoslavia riconobbe la piena indipendenza dello stato di Fiume".

21) MUSSOLINI ED IL TRATTATO DI RAPALLO

Dopo la firma del Trattato di Rapallo, le reazioni di Mussolini furono nel loro complesso favorevoli al Trattato, anche se egli non si nascondeva le difficoltà connesse alla necessità di fare accettare lè clausole del Trattato da D'Annunzio ed i suoi legionari. Il 13 novembre del 1920, fu pubblicato su "Il Popolo d'Italia" un articolo dal titolo "Ciò che rimane e ciò che verrà" a firma appunto di Mussolini, nel quale si delineava la posizione del capo del fascismo circa l'accordo di Rapallo. Egli riteneva il Trattato un fatto positivo per una serie di considerazioni: "La prima delle quali è questa: l'Italia ha moralmente, economicamente, politicamente, fisiologicamente bisogno di pace... L'Italia ha bisogno di pace per riprendere, per rifarsi, per incamminarsi sulla strada della sua immancabile grandezza. Solo un pazzo o un criminale può pensare a scatenare nuove guerre, che non siano imposte da una improvvisa aggressione... Per questo noi riteniamo buoni gli accordi per il confine Orientale e per Fiume... Gli italiani non devono ipnotizzarsi nell'Adriatico o in alcune isole o sponde dell'Adriatico. C'è anche.., un vasto mare di cui l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive dell'espansione italiana sono fortissime... Veniamo alla redenzione della Dalmazia. Nell'adunata (fascista) del 24 maggio 1920 a Milano (fu) chiesta l 'applicazione effettiva del Patto di Londra e l'annessione di Fiume all'italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre non comprese nei Patto di Londra. Questo postulato è stato superato per ciò che riguarda Fiume, è stato applicato per ciò che riguarda il Nevoso e la tutela degli italiani oltre Sebenico, non è stato applicato per Sebenico e retroterra. Siamo dinanzi a una dolorosissima rinuncia. Soltanto c'è da ricordare che il fascismo non è intransigente in materia di politica estera. Esso pensa... che l'Italia debba fare, nell'attuale periodo storico, una politica di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze."

22) D'ANNUNZIO E IL NATALE DI SANGUE A FIUME

Nel corso dello stesso mese di novembre, il Parlamento italiano approvò definitivamente il Trattato di Rapallo. Quasi tutte le forze politiche italiane si dimostrarono d'accordo con il Governo, e di conseguenza non restava da far altro che fare accettare a D'annunzio gli accordi italo-jugoslavi ed ottenere quindi che egli abbandonasse Fiume. A ben pensare il Trattato costituiva un vero successo per D'Annunzio. Tutto sommato Fiume era stata sottratta agli jugoslavi e di lì a qualche anno sarebbe stata definitivamente unita all'Italia. Eppure non fu così semplice costringere il "Comandante" ad abbandonare la città di Fiume. In particolare ciò che turbò molto la coscienza di D'Annunzio fu l'esistenza di alcune clausole segrete tra il Governo italiano e quello jugoslavo. Egli ne era stato informato segretamente da suòi amici, molto vicini agli ambienti diplomatici italiani; temeva quindi che la città di Fiume, alla quale sarebbe stato sottratto il porto Baross, si sarebbe trovata in gravi difficoltà proprio a causa della concorrenza diretta di questo porto a quello della città. D'Annunzio sperava sempre di potere contare sull'aiuto dell'ammiraglio Millo, che sino ad allora gli si era sempre dimostrato amico devoto. Ma in ciò s'ingannava, perchè Mulo, posto innanzi alla necessità di scegliere tra la sua devozione ed amicizia per il Poeta, e la fedeltà giurata al Re, decise di non tradire e di conseguenza anch'egli si apprestò ad abbandonare le zone della Dalmazia, che per il Trattato di pace di Rapallo dovevano passare sotto governo jugoslavo. Ai primi di dicembre contingenti di soldati italiani lasciarono Zara per rimpatriare. La partenza di questi provocò tumulti in città. Da una parte la comunità italiana che inveiva contro Mulo che aveva lasciato partire i soldati, dall'altra parte la comunità slava che approfittava dell'occasione per inveire contro gli italiani, dando luogo a gravi disordini nella città di Zara. D'Annunzio seppe dei disordini e della partenza dei soldati italiani, e comprese allora che Millo non lo avrebbe ulteriormente seguito nella sua avventura fiumana.In breve tempo D'Annunzio si trovò isolato: nessuno sembrava più seguirlo, nè in Patria, nè a Fiume stessa. In Italia tutti, compreso lo stesso Mussolini, si dichiararono favorevoli al Trattato; a Fiume "il Consiglio dei Rettori di Fiume e molti uomini politici non sospetti di scarso patriottismo e di sentimenti "rinunciatari" lo consigliarono di accettare il trattato, ma non furono ascoltati." Invano il Governo, preoccupato del fatto che l'opinione pubblica italiana sembrava contraria a qualsiasi atto di forza, tentò di raggiungere un accordo con la Reggenza dannunziana. Invano inviati del ministro della Guerra Bonomi e degli Esteri Sforza cercarono punti di contatto, che consentissero di giungere allo sgombero pacifico della città. Alla fine fu chiara la volontà di D'Annunzio di resistere da solo con i suoi legionari sino alla fine, e di opporsi con la forza ad eventuali atti di forza del Governo italiano. Il Governo quindi "si preparava ad una eventuale azione di forza, dando facoltà al generale Caviglia, quale comandante generale delle truppe della Venezia Giulia, di prendere tutte le disposizioni e di adottare tutti i provvedimenti atti a ricondurre alla normalità la questione di Fiume; veniva per questo assegnato al generale un primo contingente di tre battaglioni di carabinieri, e poste alle sue dipendenze le forze navali dell'alto Adriatico, comandate dall'ammiraglio Simonetti." Non essendo riuscito 11 Caviglia a concludere un accordo con D'Annunzio, il 30 novembre spedì un ultimatum a D'Annunzio con il quale gli intimava entro il seguente giorno 2 dicembre di abbandonare le isole di Arbe e Veglia e tutti gli altri territori occupati, e di rientrare quindi entro i confini dello Stato di Fiume, quali erano prima del giorno 10 novembre. Immaginando quindi il Caviglia il rifiuto di D'Annunzio a qualsiasi forma di compromesso, lo stesso giorno 30 emanò un proclama invitando tutte le truppe legionarie a rientrare tra le fila delle truppe regolari, onde evitare d'essere sottoposte a processo per alto tradimento per aver portato le armi contro lo Stato. Tuttavia nè l'ultimatum di Caviglia, nè il suo proclama sortirono l'effetto sperato. D'Annunzio sembrò più che mai deciso a non cedere ed a combattere sino alla fine. S'intensificarono comunque i contatti diplomatici, cercando ancora il Governo una via d'uscita, che non fosse il ricorso alla forza, alla difficile situazione. Così si ebbero contatti continui tra emissari di Bonomi e di D'Annunzio: ma inutilmente. La situazione già di per sé molto grave, finì col diventare del tutto drammatica, quando si verificarono gravi episodi d'indisciplina su alcune navi italiane, che tradirono, unendosi alle forze danunziane. La corazzata Dante Alighieri si rifiutò d'abbandonare il porto di Fiume; il caccia Bronzetti, la torpediniera 68 PN ed il caccia Espero si posero agli ordini del "Comandante". A tutto ciò si aggiunse la defezione di qualche piccolo reparto di terra, sicchè il Governo temette che la scarsa fedeltà delle truppe avrebbe compromesso del tutto la possibilità di ottenere lo sgombero della città. Non era in discussione soltanto il rispetto del Trattato di Rapallo, bensì lo stesso prestigio del Governo, che avrebbe dovuto dimostrare di contare ancora qualcosa, e di essere quindi in grado di domare la rivolta. Da questo momento le trattative continuarono stentatamente: ci si rendeva conto che si andava ormai verso la lotta fratricida. Ancora il giorno 14, rispondendo ad una lettera, inviatagli da 80 senatori italiani, e dal patriota triestino Attilio Hortis, D'Annunzio sintetizzava così le ragioni del suo diniego a qualsiasi trattativa: "Fiume chiede che le sia almeno lasciato Porto Sauro (cioè Porto Baross) ed il Delta; ma Trumbic e Stoianovic rispondono che Porto Baross ed il Delta dell'Eneo dovranno appartenere alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia avrà inoltre diritto di intervento nelle questioni dello Stato di Fiume, dato che ne include quasi tutte le sue frontiere terrestri e tutte le arterie economiche. Da parte dell'Italia nessuna risposta: silenzio brutale." Il generale Caviglia, visto e considerato che le trattative con D'Annunzio non procedevano in senso favorevole, decise già il giorno 21 di procedere al "blocco effettivo per terra e per mare" dello Stato di Fiume. Il Caviglia dettò quindi un termine di 48 ore perchè navi e uomini lasciassero volontariamente Fiume, rientrando entro il territorio nazionale. D'Annunzio rispose al blocco, proclamando lo stato di guerra, e dimostrandosi quindi con questo atto, più che mai deciso a combattere piuttosto che a cedere. Il giorno 23, scaduto il termine concesso dall'ultimatum di Caviglia, pochi uomini avevano abbandonato Fiume e nessuna nave. La città era del tutto bloccata. D'Annunzio pensava che Caviglia avrebbe continuato il blocco, senza giungere ad una vera e propria azione di guerra. Ma, essendo stato intercettato un ordine del generale Perrario con il quale si ordinava alle truppe di tenersi pronte ad occupare Fiume per il giorno 24, egli comprese che ormai ci si avviava verso la guerra fratricida, ch'egli aveva tanto paventato. Tuttavia egli diede l'ordine di attenersi al concetto di difesa e non a quello dell'attacco. I legionari si sarebbero difesi, se attaccati; ma non avrebbero condotto nessuna azione offensiva contro i loro "fratelli". Caviglia aveva affidato l'operazione per l'occupazione di Fiume al generale Ferrano. Quest'ultimo riteneva che fosse possibile entrare nella città con una semplice azione di polizia; pensava quindi che pochi reparti di carabinieri sarebbero stati sufficienti per condurre l'azione. Tuttavia, nel dubbio che venisse tentata dai legionari una qualche resistenza armata, era stato predisposto l'impiego dell'esercito con l'àppoggio delle artiglierie, sia di terra che quelle della flotta, che ancorata al largo di Fiume, avrebbe potuto con facilità intervenire.
All'alba del 24 dicembre, vigilia di Natale, le truppe della 45ma divisione iniziarono ad avanzare in direzione di Fiume. Inizialmente l'avanzata avvenne senza colpo ferire, perchè i legionari, fedeli alla consegna di D'Annunzio di evitare nei limiti del possibile di far fuoco sui loro fratelli, si ritirarono verso la linea fissata per la resistenza. Essi quindi issarono grandi cartelli sui quali era scritto: "Fratelli, se volete evitare la grande sciagura, non oltrepassate quest6 limite. Se i vostri Capi vi accecano, il Dio d'Italia v'illumini." In città frattanto si respirava già l'atmosfera natalizia: negozi aperti, gente affaccendata nelle ultime compere; sembrava incredibile a tutti che gl'italiani attaccassero i loro fratelli di Fiume proprio alla vigiglia di Natale. Ma alle ore 18 di quella vigilia di Natale, ebbe inizio l'attacco delle truppe. Inizialmente esse, favorite dalla sorpresa, riuscirno ad avanzare, però in breve tempo il valore delle truppe legionarie, formate, non dimentichiamolo, per la maggior parte da arditi, riuscì a bloccare gli avanzanti su una nuova linea. Invano D'Annunzio sperò in quelle ore che gli italiani insorgessero per appoggiare Fiume: ci fu solo un modesto tentativo in proposito a Trieste, ma altrove regnò la massima calma. La Patria aveva abbandonato il Poeta. A questo punto il generale Ferrario, d'accordo con Caviglia, decise di sospendere le operazioni per il successivo giorno di Natale: essi speravano che i fiumani si ribellassero a D'Annunzio, evitando quindi altro spargimento di sangue: inoltre quel giorno sarebbe stato impiegato a mettere in posizione le batterie delle artiglierie, per iniziare, in caso di resistenza, il bombardamento. della città. L'attacco riprese quindi all'alba del 26 dicembre. Ma malgrado l'appoggio delle artiglierie, i legionari non mollarono la loro linea ed anzi in più punti contrattaccarono con veemenza. "La situazione diveniva tragicamente grottesca, data l'evidente impossibilità per il comando dell'Esercito regolare di concludere rapidamente, con il solo uso delle truppe di terra, quella che inizialmente era stata definita una azione di polizia, ed a mezzogiorno il generale Caviglia dava l'ordine all'ammiraglio Simonetti di aprire il fuoco contro il palazzo del Comando e contro gli obiettivi militari della città." Verso le ore 16 dello stessò giorno 26, l'Andrea Doria, che già aveva colpito il cacciatorpediniere Espero, provocando lo scoppio della Santa Barbara, si avvicinava a meno di un chilometro dalla riva, e da li, con un tiro diretto, quindi molto preciso, colpiva il palazzo del Comando. Diverse granate colpirono la facciata. Una scoppiò sull'architrave della finestra dello studio di D'Annunzio, provocandone il leggero ferimento, e provocando la morte di un sergente. Invano si tentarono approcci tra il sindaco ed il comando delle truppe italiane; poichè mancava la piena accettazione del Trattato di Rapallo, Caviglia decise di continuare l'azione. Sicchè ancora il seguente giorno 27 continuò il bombardamento della città anche se a ritmo ridotto. A sera, vista l'impossibilità di continuare la resistenza, e per evitare spargimento di sangue tra la popolazione civile, essendosi il generale Ferrario rifiutato di consentire lo sgombero delle donne, dei vecchi e dei bambini, si recarono a parlamentare al Comando italiano il sindaco Gigante ed il capitano Host-Venturi. Ma invano, perchè Ferrario si dimostrò irremovibile. Concesse comunque una tregua sino alle ore 14 del giorno seguente, dopo di che avrebbe iniziato il bombardamento sistematico, anche con i grossi calibri, dell'intera città. Considerate le ferme posizioni del Comando delle truppe regolari, il giorno 28 mattina si riunì il "Consiglio della Reggenza", per decidere se cedere o meno alle intimazioni di Caviglia. Soltanto Grossich dichiarò di accettare la resistenza e quindi il conseguente bombardamento della città; di conseguenza D'Annunzio, verificata la mancanza di appoggio da parte della cittadinanza, decise di abbandonare il comando della città, mantenendo soltanto il comando dei legionari di Ronchi. Ciò avrebbe permesso al governo provvisorio della Reggenza, di cercare quella soluzione pacifica che evitasse ulteriore spargimento di sangue. Avendo abbandonato il Comando di Fiume, fu facile per il consiglio comunale cittadino raggiungere un accordo con le truppe regolari italiane, accordo che venne firmato ad Abbazia il giorno 31 dicembre. Il 2 gennaio D'Annunzio con il suo esercito si recò al cimitero a rendere omaggio ai caduti di quella breve guerra civile: la lotta era costata una cinquantina di morti tra le due parti. Ancora una volta l'atmosfera raggiunse momenti di vibrante commozione. Infine il giorno 18 gennaio D'Annunzio si accomiatò dalla cittadinanza fiumana. Salutato nell'aula del Consiglio da Antonio Grossich, ricevette dall'intera città una nuova ed ultima manifestazione di delirante affetto. Ma a prescindere dal valore dell'impresa fiumana, ciò che a noi maggiormente interessa in questa sede, è sottolineare come l'impresa di D'Annunzio abbia fatto scuola per la successiva marcia su Roma e per il rituale fascista. D'Annunzio, certo neppure conscio di manipolare le masse con grande maestria, poichè di certo egli agiva così come sentiva, senza secondi scopi reconditi, sperimentò tutto quanto poi il fascismo farà suo: il discorso dal balcone, il saluto romano, il grido "eia, eia, alalà! ", il dialogo drammatico con la folla in delirio, il ricorso a simboli religiosi, ai martiri ed alle reliquie; tuttavia la somiglianza con il governo di Mussolini è tutto e soltanto qui. La Reggenza del Carnaro fu infatti una democrazia avanzatissima; la costituzione, redatta da De Ambris, stabiliva infatti la eguaglianza totale tra uomini e donne, la tolleranza di ogni forma religiosa e quindi anche dell'atei-smo, un perfetto sistema di sicurezza sociale, la gestione del potere tramite un sistema di democrazia diretta. Ben altro quindi da quanto Mussolini realizzò in seguito nella "sua Italia".

23) LO SQUADRISMO SI ESTENDA DALLA VENEZIA GIULIA VERSO L'EMILIA

Proprio quando sembrava che il fascismo fosse stato sconfitto definitivamente e che sarebbe quindi scomparso dalla storia d'Italia, dove per la verità sino ad allora aveva contato ben poco, proprio allora il fascismo riprese il suo ruolo ed in breve tempo, cioè tra la seconda metà del 20 ed il 21, divenne una grande forza nella politica italiana, ed in breve tempo l'unica forza in grado d'imporsi definitivamente all'intero popolo italiano. Come può essere accaduto ciò? Sembrava che Giolitti stesse riportando lo stato verso la normalizzazione, e proprio allora iniziò il trionfo del "partito della violenza". Ebbene per comprendere il meccanismo psicologico e materiale che permise un simile trionfo, occorre ricordare lo stato d'animo, che si era pian piano, ma in modo inesorabile, incuneato nella mente di tanti italiani. Ricorderemo già lo strascico d'odio degli industriali per gli operai occupanti le fabbriche; ricorderemo le frustrazioni e le umiliazioni subite da tanta parte delle forze armate, beffeggiate e umiliate da un proletariato pseudo-rivoluzionario, che nella realtà dei fatti si limitava a comportamenti scorretti e fastidiosi, che esasperavano gli animi; aggiungiamo adesso per finire il quadro, il grande sciopero dei braccianti e mezzadri, sciopero durato diversi mesi del 1920, con danni immensi per l'agricoltura. Anche quest'ultimo sciopero si concluse con un accordo che accoglieva tutte le richieste della Federterra, ma che generò negli animi degli agrari di Bologna e dell'Emilia, odio e sentimento di vendetta. Nel campo agrario si erano avute delle importanti trasformazioni: al termine della guerra tanti proprietari terrieri, spaventati dai discorsi comunistoidi di tanta parte dei socialisti italiani, aveva venduto o o anche svenduto i possedimenti. I neo-proprietari, che spesso erano essi stessi coltivatori, erano ben decisi a difendere anche con la vita la loro "conquista"; ebbene essi invece si accorsero di essere alla mercè di un bracciantato indisciplinato, turbolento, tavolta con incarichi politici nelle amministrazioni locali, e contro di essi si resero conti di non aver quasi nessuna difesa; sicchè dovettero subire per anni i loro lazzi, le loro rivendicazioni, la loro promessa di una rivoluzione ormai imminente, che avrebbe spazzato via tutti i borghesi ed i proprietari, per consentire l'instaurazione della dittatura del proletariato. Questo della rivoluzione era ormai il ritornello continuo e perenne dei socialisti, e seppure in pratica non vi fossero molte probabilità che essi riuscissero ad attuare la loro rivoluzione, tuttavia i loro continui discorsi spaventarono i borghesi piccoli e grandi, gli agrari ed alla fine ne determinarono il sentimento di vendetta, che fu quello che consentì al fascismo di trionfare. Tutti questi uomini spaventati, incominciarono a sperare in un uomo forte, in grado di rimettere le cose a posto, di sistemare i "rossi" fargliela loro pagare. Sicchè quando i fascisti incominciarono ad organizzare le loro prime squadre ed a picchiare, a da olio di ricino, e talvolta ad ammazzare, vennero seguiti da costoro con simpatia; gli agrari dell'Emilia corsero ad iscriversi ai fasci, spesso per partecipare anche essi alle spedizioni punitive contro i "rossi". Ecco allora il fascismo diventare fenomeno di massa: di una massa che intendeva vendicarsi, apprezzava le squadre d'azione, apprezzava il nuovo movimento-partito che non si limitava a predicare ma agiva con energia contro i loro nemici. Certo da parte di Mussolini fu necessario operare una svolta a destra; egli dovette abbandonare le sue posizioni filo-socialiste, i suoi programmi rivoluzionari, e sostituire questi con programmi di ordine e di restaurazione. Allora incontrò l'appoggio dei ceti medi, dei ceti industriali, ma soprattutto dei ceti agrari. Mussolini non aveva mai pensato alla possibilità di trovare appoggio tra gli agrari; ma i fatti gli presero la mano, ed egli si ritrovò con un appoggio insperato del quale all'inizio trovò finanche imbarazzo a servirsi. Adesso non predicò più per la terra ai contadini; divenne un perfetto conservatore e restauratore d'ordine. Il primo grave episodio, che dette il via all'estendersi dello squadrismo, avvenne a Bologna alla fine del 1920. Già nell'ottobre era terminato lo sciopero dei contadini e dei mezzadri: questo sciopero aveva lasciato uno strascico di odio, tuttavia i socialisti continuavano ad avere la maggioranza nelle amministrazioni locali di diversi capoluoghi emiliani. A Bologna in particolare i socialisti avevano ottenuta la maggioranza ed il 21 novembre essi si sarebbero insediati nel palazzo del comune per celebrare la loro vittoria. Essi avevano ottenuto, dopo lunghe insistenze, il permesso di esporre nel palazzo del Comune la bandiera rossa. Il Fascio della città annunciò allora che sarebbe intervenuto di forza per impedire che venisse esposta nel palazzo del Comune la bandiera dei "bolscevichi": Questa l'atmosfera che si era venuta preparando. I socialisti dal loro canto decisero di prepararsi alla difesa: se i fascisti avessero attaccato, essi si sarebbero difesi, e quindi sarebbero andati in aula armati e pronti alla lotta. Il questore della città aveva predisposto comunque un imponente servizio d'ordine per evitare incidenti e scontri armati tra fascisti e socialisti. Guardie regie e carabinieri a cavallo presidiavano in massa la piazza sulla quale s'affacciava il palazzo comunale. Alle tre del pomeriggio ebbe inizio con regolarità la cerimonia dell'insediamento dei neo-eletti. Fu quindi eletto nuovo sindaco della città l'operaio delle ferrovie Enio Gnudi. A questo punto il sindaco si recò verso il balcone del palazzo per salutare la folla, che si accalcava sotto il palazzo, e per rivolgere un breve discorso a tutti i suoi compagni, che erano lì sotto ad attendere. A questo punto si verificarono nella piazza disordini. Il cordone della polizia sembrò spezzarsi, spinto da squadre fasciste; si sentì il rumore di colpi d'arma da fuoco; la gente si spaventò ed iniziò a sbandarsi ed a fuggire. A questo punto gli uomini preposti dall'amministrazione comunale a difesa del palazzo perdettero la testa ed iniziarono a gettare bombe a mano, mentre gli spari si moltiplicavano. Dall'alto del balcone diverse bombe si abbatterono sulla folla: nove persone furono uccise, circa un centinaio ferite. Frattanto all'interno del salone del Consiglio si levarono grida di spavento e di rabbia. Anche lì si incominciò a sparare. I consiglieri fuggirono. L'avvocato Giulio Giordani, consigliere della minoranza, rimase ucciso, l'avvocato Colliva gravemente ferito. Questo gravissimo incidente provocò l'immediata reazione di tutti i fascisti e di tutti i borghesi ed agrari d'Italia. Essi accusarono i socialisti di aver voluto provocare l'eccidio. In effetti è indubbio che le bombe furono lanciate dai socialisti, e che a sparare furono soprattutto i socialisti, ma occorreva comprendere il meccanismo di paura che aveva provocato la reazione inconsulta, reazione che aveva portato al lancio delle bombe ed all'uccisione di nove persone, tutte socialiste. Da questo momento le squadre si moltiplicarono a vista d'occhio. A Ferrara organizzate da Italo Balbo; a Bologna da Dino Grandi, che attraverso il suo settimanale "L'Assalto", con accenti violenti accusò i socialisti di volere la guerra civile: ebbene questa guerra adesso essi l'avrebbero avuta. Anche a Ferrara, dopo l'eccidio di Bologna presso il Palazzo d'Accursio, si ebbero episodi di violenza con numerosi morti da entrambe le parti. Così il 20 dicembre, nel corso di uno scontro tra una colonna di fascisti ed una di socialisti in piazza Castello, dall'alto del Castello partirono dei colpi che uccisero tre fascisti ed un socialista, mentre i feriti furono una trentina. L'allora ministro della Guerra Ivanoe Bonomi, nel suo libro, pubblicato postumo nel 1953, cioè "La politica italiana dopo Vittorio Veneto", così sintetizza l'improvvisa ascesa del fascismo agrario: "D'improvviso, dopo la tragedia di Bologna, i ceti agrari si muovono, si adunano, si organizzano. Nei borghi della valle padana giovani ufficiali reduci di guerra, chiamano a raccolta i loro amici e parenti agricoltori e dicono loro che bisogna difendersi contro coloro che non volevano la guerra e che oggi non riconoscono la vittoria, contro quelli che incitano alle violenze violenze e al disordine, contro le correnti che vogliono instaurare la dittatura del proletariato e ripetere in Italia l'esperimento di Russia. Un'aria di battaglia aleggia nelle campagne. In cerimonie patriottiche la gente d'ordine non sta più tappata in casa timorosa di violenza, ma espone la bandiera tricolore e va a gridare in piazza i suoi "Evviva". Le molte scritte sui muri - così care al costume politico italiano - non sono più soltanto quelle comuniste. Ai molti "Viva Lenin", "Viva la dittatura proletaria", si contrappongono altre scritte che inneggiano alla patria e alla vittoria". In ogni caso il contatto tra fascismo e ceti agrari e ceti industriali avvenne in modo del tutto spontaneo ed inaspettato. Lo stesso Mussolini non aveva affatto pensato ad un simile trionfo, anche se seppe intelligentemente approfittare della situazione, per consolidare la sua posizione politica. Il problema che ha sino ad oggi impegnato gli storici, è quello di comprendere il perché del comportamento passivo, quando addirittura non di aperta connivenza con le Firenze, nel Veneto ed in Umbria. Pian piano si venne creando la leggenda che il ministro della guerra Bonomi avesse garantito buona parte dello stipendio agli ufficiali in congedo che avessero assunto il comando delle squadre fasciste; ed ancora si è lungamente parlato di una circolare di Bonomi, nella quale si sarebbe raccomandato ai comandi di divisione di aiutare le varie organizzazioni fasciste. Questa voce, che ebbe tra i suoi autorevoli divulgatori, forse anche in buona fede, uomini come Gramsci, benchè ripetutamente smentita dallo stesso Bonomi e dall'allora capo di Stato maggiore Badoglio, -dicevamo - questa voce, ha trovato e trova tuttora un certo credito. Ormai essa si è dimostrata priva di qualsiasi fondamento. Scrittori certamente antifascisti, quali Paolo Alatri, Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, dopo approfondite ricerche del famigerato documento, dopo infruttuose indagini, hanno dovuto concludere che si trattò di una montatura, che aveva tuttavia la parvenza della verità. E' invece provata la connivenza di forze di polizia, prefetture e magistrati, i quali finirono con l'assicurare la impunità ai fascisti, agendo invece con il massimo rigore contro le intemperanze socialiste; in altri termini queste autorità mancarono al loro dovere, adoperando sempre due pesi e due misure. In Toscana il fascismo trovò terreno favorevole al suo propagarsi. Lo squadrismo assunse aspetti molto organizzati e portò questa regione, tradizionalmente socialista, sull'orlo della guerra civile. Alla fine del marzo 1921 a Firenze scoppiarono gravi disordini; dapprima venne lanciata una bomba su di un corteo fascista, provocando la morte di due persone ed il ferimento di altre trenta; per reazione i fascisti organizzarono rappresaglie, distruggendo alcuni circoli sindacali ed uccidendo a sangue freddo il segretario del sindacato ferrovieri Spartaco Lavagnini; la reazione socialista sembrò per un momento portare il paese verso la guerra civile, con barricate, diversi altri morti e violenze d'ogni tipo. Tra questi episodi ebbe particolare noto-rietà l'uccisione di Giovanni Berta; inseguito dai socialisti, gettato in Arno, tentò disperatamente di tenersi con le mani alle spallette del ponte, ma fu spinto con freddezza giù nel fiume, dopo di che i suoi uccisori assistettero con cinismo all'annegamento, avvenuto sotto i loro occhi, del malcapitato. Poi insorse Scandicci; intervenne l'esercito per sgomberare le strade dalle barricate, e subito dopo arrivarono i fascisti, comandati da Dumini e da Banchelli a "mettere a posto i rossi". Ad Empoli avvenne un fatto, sia pure nella sua diversità, molto simile a quanto avvenuto a Bologna a Palazzo d'Accursio. Si era infatti sparsa la voce che i fascisti stessero preparandosi a compiere una delle loro spedizioni punitive ad Empoli. La cittadinanza, quasi tutta di sentimenti socialisti, si preparò alla difesa. Lungo la strada si appostarono uomini armati, pronti a respingere l'attacco dei fascisti. Infine giunse un uomo in motocicletta preannunciando l'arrivo dei camion fascisti. Pochi minuti dopo ecco i due mezzi avanzare. Non appena a tiro, iniziò il fuoco spietato dei socialisti. Il primo camion, sia pure con morti e feriti a bordo, riuscì a sfuggire all'agguato accelerando; ma il secondo mezzo, costretto a fermarsi perchè l'autista era rimasto gravemente ferito, fu letteralmente preso d'assalto. Invano gli uomini a bordo del mezzo, chiedevano pietà, dicendo di non essere fascisti, la folla inferocita non capiva più nulla; infine compresero di avere sparato su due camion pieni di macchinisti delle ferrovie e di meccanici della marina, che si recavano verso Livorno, per sostituire i ferrovieri in sciopero. Un carabiniere, che ferito e terrorizzato era fuggito verso la campagna, fu inseguito; respinto da un casolare dove aveva chiesto soccorso, fu infine raggiunto dalla folla e ucciso a bastonate. Innumerevoli furono le devastazioni, effettuate da squadre fasciste, di Camere del Lavoro, Case del Popolo, sedi del Partito Socialista. Innanzi a tanto sfacelo, che ormai stava degenerando in vera e propria guerra civile, Giolitti restava inerte; attendeva che le acque si calmassero da sole, così come aveva sempre fatto per il passato. Egli non comprese che ormai dopo la guerra la violenza era nella mente di tutti. Tutti avevano imparato a farsi ragione da soli: occorreva quindi intervenire con energia, prima che fosse troppo tardi e la lotta degenerasse in guerra civile. Le violenze di Fiume, di Trieste, eppoi di Bologna, Ferrara, Firenze, avrebbero dovuto far comprendere la vera essenza del problema, e spingere il governo verso una azione di forza e di tutela della legge. Invece Giolitti rimase inerte, attendendo che tutto tornasse come prima. Non aveva compreso che la sua inazione, nel corso dell'occupazione delle fabbriche prima, e nel corso dello sciopero agrario poi, aveva portato l'opinione pubblica a nutrire una completa sfiducia nell'opera del governo e quindi a cercare attraverso nuovi mezzi di tutelare i propri interessi e difendersi dagli attacchi degli avversari.

24) LA SCISSIONE COMUNISTA AL CONGRESSO SOCIALISTA DI LIVORNO

Il socialismo italiano, già sconfitto nel corso dell'occupazione delle fabbriche, conobbe un altro gravissimo momento, quando l'ala più massimalista, si staccò dal partito, per dare vita ad un nuovo partito, quello comunista.
Il 15 gennaio del 1921 si iniziò a Livorno presso il Teatro Goldoni, il congresso socialista. Esso, nel corso dei sei giorni in cui si articolò, presentò il partito diviso in tre correnti: una moderata, capeggiata da Turati e Prampolini; la seconda, dei cosiddetti unitari, che ritenevano possibile la convivenza tra moderati e massimalisti di estrema sinistra; ed infine una terza corrente di massimalisti intransigenti, della quale facevano parte uomini quali Bordiga, Bombacci, Gramsci, che chiedeva l'espulsione dal partito dei moderati, detti revisionisti, l'adozione del nome comunista per il partito, l'adesione totale al programma rivoluzionario bolscevico di stampo prettamente russo.
Il 20 gennaio si chiuse il congresso socialista, senza che fosse stata trovata una soluzione accettabile da parte delle tre correnti del partito. Il giorno 21 gennaio venne fondato il Partito Comunista Italiano, del quale fecero subito parte uomini di grande ingegno, quali Gramsci, Bordiga, Terracini, Togliatti e Bombacci; quest'ultimo poi passerà al fascismo.
Il Partito Socialista venne quindi senz'altro indebolito dalla scissione; nè riuscì, essendosi liberato dell'ala più estrema, a trovare nel suo interno quella concordia d'intenti che avrebbe potuto allora salvare l'Italia.

25) LA STRAGE AL TEATRO DIANA

La sera del 23 marzo 1921, presso il Teatro Diana di Milano, si svolgeva la rappresentazione di un'operetta di Lehar. Alla fi-ne del secondo atto scoppiò una potente bomba, che provocò una vera strage tra gli spettatori e gli orchestrali. Vi furono 17 morti e numerosi feriti, oltre settanta. Molti rimasero mutilati.
I fascisti ancora una volta ebbero buon gioco ad accusare i socialisti e gli anarchici della strage. In effetti le indagini, che riuscirono ad individuare gli autori della stessa, si conclusero nel '22, con la condanna di due anarchici, fanatici ed individualisti, ma dimostrarono anche l'assoluta estraneità dei socialisti all'orrendo delitto.
Pochi giorni dopo la strage del Diana si ebbe un altro attentato con bombe a Foligno contro alcuni soldati d'artiglieria. Due bombe, esplose contro di questi, provocarono tre morti e 15 feriti.
Tutto ciò, questo continuo stillicidio di morti e di attentati gravissimi, contribuì a creare l'idea, largamente diffusa, secondo la quale era indispensabile in Italia trovare un uomo ed un partito forte in grado di rimettere ordine ad uno stato in completo sfacelo. L'unico partito in grado di assicurare quest'azione di forza e d'ordine sembrò essere il partito fascista, che continuò a dif-fondersi ed a diventare partito di massa.

26) GIOLITTI SI AVVICINA ALLE POSIZIONI FASCISTE

Al termine della Grande Guerra gli atteggiamenti, ispirati all'estrema sinistra, di Mussolini, avevano provocato l'isolamento dei fascisti, che non avevano ottenuto né l'appoggio del ceto industriale, né di quelli operai; il primo era infatti intimorito dal programma di chiara ispirazione socialista di questo primo fascismo; i secondi invece erano tradizionalmente socialisti ed aderivano attivamente all'ideologia ed alla politica programmatica di questo partito, che prometteva la rivoluzione, ormai imminente nel 1920, dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, fu chiaro che il socialismo italiano non era affatto in grado di realizzare il suo programma rivoluzionario. Mussolini allora, col suo fiuto politico, sempre attento agli umori delle masse, comprese che era giunto il momento di cambiar politica: eccolo allora, in breve diventare da rivoluzionario-progressista a conservatore-reazionario, com'egli stesso ammetteva in un suo articolo pubblicato nel marzo del '21 sul "Popolo d'Italia". Il fascismo, che ancora nel '19 s'era dimostrato forza del tutto trascurabile, ottenne adesso l'appoggio degli industriali e subito dopo anche degli agrari: entrambi questi ceti erano attratti dal fascismo sia per il suo pragmatismo attivo, sia per la sua promessa di restaurazione morale, politica ed economica del Paese. Scriveva Mussolini: "Le masse agricole hanno un sacro terrore della cosiddetta socializzazione della terra. Sentono che sarebbe la burocratizzazione assassina della terra. Ma comprendono la formula fascista e vengono a noi". Ed aggiungeva ancora: "Due anni! Rapida successione di eventi! Tumulto e passare di uomini! Giornate grigie e giornate di sole. Giornate di lutto e giornate di trionfo! Sordo rintocco di campane funebri; squillare gioioso di fanfare all'attacco. Fra poco il Fascismo dominerà la situazione". Giolitti convinto che la violenza fosse una esigenza momentanea nella quale stava vivendo il fascismo, convinto inoltre che, qualora il fascismo fosse entrato in parlamento, avrebbe esaurito e scaricato la sua dinamica carica di violenza, si avvicinò sempre più al nuovo movimento, sperando anche che questo potesse fare da contrappeso al rivoluzionarismo immobile del partito socialista. Tuttavia parlare di filofascismo di Giolitti ci pare errato. Si trattò soltanto di simpatia e di speranza di potere canalizzare sulla via della democrazia questa nuova, giovane e travolgente forza politica. Già nel corso delle precedenti elezioni amministrative si era sperimentata l'alleanza dei "blocchi nazionali", con compiti antisocialisti. Adesso questa prima alleanza si ampliò e Giolitti sperò con tale mezzo di parlamentizzare e poi di assorbire definitivamente il movimento fascista. Ma s'ingannava: non aveva compreso che la violenza, come forma di lotta, era connaturata al nuovo movimento politico.

27) GIOLITTI INDICE NUOVE ELEZIONI

Abbiamo già visto come la maggioranza, della quale si avvaleva Giolitti in Parlamento, fosse instabile ed infida. Ciò provocava un certo qual imbarazzo al Governo, che spesso si trovò in difficoltà in questioni molto importanti. Probabilmente Giolitti sperò che frattanto la situazione politica fosse mutata a suo vantaggio e che fosse quindi giunto il momento di indire nuove elezioni, onde ottenere una migliore e più stabile maggioranza in Parlamento. Egli infatti riteneva che i socialisti, indeboliti dalla scissione comunista, indeboliti inoltre dal fallimento dell'occupazione delle fabbriche, indeboliti dai continui attacchi fascisti, sarebbero stati ridimensionati, consentendo quindi la governabilità del Paese. Giolitti sperava inoltre di riuscire ad incanalare in senso a lui favorevole la nuova marea fascista, e si convinse quindi a sciogliere la Camera, indicendo nuove elezioni. Le nuove elezioni si rivelarono come il più clamoroso errore politico di Giolitti. Queste si svolsero in un clima agitato da continue spedizioni punitive; tuttavia, malgrado ciò, furono abbastanza libere e rispecchiarono fedelmente la volontà dell'elettorato. Le nuove elezioni si conclusero quindi con questi risultati: i socialisti passarono da 156 seggi a 122, più 16 seggi ai comunisti; il partito popolare da 100 seggi passò a 107; i restanti partiti, riuniti in un blocco eterogeneo e tutt'altro che compatto, ebbero 275 seggi, contro i precedenti 239. Tra questi ultimi vi era il blocco nazionale, composto da circa 80 liberali, 60 democratici, 35 fascisti e 10 nazionalisti. Mussolini, che nel 1919 aveva ottenuto soltanto 4.064 voti, adesso ne ottenne ben 124.918; ciò gli schiuse le porte del Parlamento, facendolo subito diventare il leader delle forze di destra, e sedendo egli con i fascisti nei banchi dell'estrema destra.

28) PROGRAMMA FASCISTA ALLE ELEZIONI DEL 1921

Il discorso più importante, pronunciato da Mussolini nel corso della campagna elettorale del '21, fu quello del 3 aprile a Bologna presso il Teatro Comunale, dove appunto si svolse un comizio dei fascisti. In esso Mussolini affermò che la nascita del movimento fascista era dovuta alla contrapposizione della "nostra stirpe ariana e mediterranea... che si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso dove è nata". In altri termini egli affermò che il fascismo sarebbe nato come naturale contrapposizione al bolscevismo. Queste affermazioni dei fascisti dettero vita in seguito al mito dell'Italia salvata dal bolscevismo dalle "camicie nere". E' stato invece già ben chiarito come il tentativo insurrezionale rosso e bolscevico, fosse già da ritenersi fallito con il fallimento dell'occupazione delle fabbriche. Mussolini quindi continuò il suo discorso, affermando che, se l'Italia aveva ottenuto i confini del Brennero, del Nevoso e Fiume, lo doveva alle strenue lotte dei fascisti. Continuava quindi il discorso di Mussolini, con la teorizzazione della violenza, già sperimentata con successo: "Ma ancora non è finito l'avvento di questo fascismo, di questo movimento straripante, di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico. Io solo qualche volta, io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli avevo assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco, perchè ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari. Ma noi non facciamo della violenza una scuola, un sistema o peggio una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico. Le nostre spedizioni punitive, - continuava Mussolini nel suo discorso - tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perchè noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario, e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura e ingrata fatica". Quindi Mussolini dopo avere respinto le accuse di essere "venduto ai pescicani o all'agraria", e dopo avere criticato in particolare i socialisti con la loro "stolta" politica, espresse le sue nuove idee in fatto di diritti e doveri sociali dei cittadini. "E' stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa, - affermò Mussolini - noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano: ma non facciamo distinzioni assurde, ma non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoro manuale. Per noi tutti lavorano... Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi la comunione, la solidarietà della stirpe... Diciamo a tutti: fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo, voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana". "Altro elemento di vita del fascismo -aggiunse Mussolini - è orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il primo maggio, se i popolari hanno il 15 maggio... noi fascisti (avremo) il Natale di Roma, il 21 aprile. In quel giorno noi, nel segno di Roma Eterna, nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza, noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge, la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazioni passiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perchè noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale, perchè pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni". Questo discorso contiene in nuce tutti i più importanti e ricorrenti motivi del fascismo: ecco perchè lo abbiamo riportato, almeno nelle sue parti essenziali.

29) LE DIMISSIONI DI GIOLITTI

L'11 giugno del 1921 s'inaugurò la nuova legislatura. La Camera, che già era stata sciolta da Giolitti, perché non assicurava la governabilità del Paese, adesso, invece di eliminare questo grave inconveniente, lo vide aggravarsi: il partito socialista aveva subito un certo ridimensionamento, che tuttavia non ne intaccava fondamentalmente le posizioni, mentre facevano il loro debutto in Parlamento due nuove forze politiche: i comunisti, all'estrema sinistra; i fascisti, all'estrema destra. La presenza di questi nuovi gruppi politici fu la dimostrazione evidente della radicalizzazione della lotta politica, ormai incapace di assumere atteggiamenti equilibrati ed effettivamente democratici. La legislatura ebbe inizio con la cerimonia di apertura della Camera, con l'intervento del re, il quale lesse il suo discorso della Corona, accennando alla necessità di procedere al riassetto economico, sociale e politico dello Stato, e alla restaurazione dell'autorità dello Stato, autorità scossa dalle continue azioni di guerra civile in atto nel Paese. Mussolini, al suo esordio parlamentare, si occupò sia di politica estera, attaccando aspramente la politica del conte Sforza, che 'di politica interna, facendo riferimento alle forze politiche, rappresentate in Parlamento. Il Governo Giolitti cercò ancora una volta di ottenere l'appoggio determinante dei socialisti, ma questi, criticati anche dal nuovo partito comunista italiano, rimasero all'opposizione, malgrado Turati cercasse in tutti i modi di convincerli ad una collaborazione parlamentare con il Governo Giolitti. Sicchè il Governo si trovò come stretto tra due fuochi: a sinistra i socialisti, e a destra i gruppi nazionalisti, fascisti e conservatori, che si opponevano al Governo, soprattutto a causa della sua politica estera: questi ultimi infatti non accettavano di buon grado la cessione, a suo tempo negoziata con la Jugoslavia, di porto Baross. Di conseguenza Giolitti ottenne una maggioranza stiracchiata e preferì quindi dimettersi, abbandonando quindi per sempre quel seggio presidenziale, dal quale per tanti anni aveva guidato l'Italia.

30) L'ESORDIO DI MUSSOLINI ALLA CAMERA

Alla vigilia dell'inaugurazione della legislatura, Mussolini dichiarò alla stampa che i fascisti non avrebbero presenziato alla seduta inaugurale. Ciò "perchè il fascismo, pur non avendo una pregiudiziale contro la monarchia, era tendenzialmente repubblicano". Questa sua dichiarazione suscitò vivo risentimento tra numerosi membri del suo movimento-partito. Molti dirigenti d'esso erano di sentimenti monarchici e quindi si opposero alla decisione di Mussolini. Questi allora presentò un ordine del giorno sulla partecipazione o meno dei fascisti alla seduta inaugurale; ma la sua proposta fu respinta, sicchè i fascisti, escluso Mussolini e qualche altro deputato fascista, parteciparono alla stessa. Il 13 giugno i fascisti compirono la loro prima azione violenta nella stessa sede della Camera. Essi misero alla berlina, e poi cacciarono a viva forza fuori dall'aula, il deputato comunista Francesco Misiano, disertore nel corso della Grande Guerra. Tutti i gruppi parlamentari protestarono per i metodi violenti dei fascisti e per l'offesa arrecata alla Camera, tuttavia quando il Misiano si presentò in aula, abbandonarono in blocco la stessa, in segno di protesta per "l'indegno" collega. Ma ciò che maggiormente preoccupava Mussolini era il fatto che ormai il movimento fascista stava per sfuggirgli di mano. Egli non ne aveva più il pieno controllo; ciascuna sezione agiva in modo del tutto autonomo, compiendo azioni spesso non condivise dalla direzione. Egli si rese conto allora dell'assoluta esigenza di riconquistare l'effettivo controllo del suo movimento. Ma perchè ciò potesse realizzarsi era necessario avviare il partito verso la strada della pacificazione, cioè occorreva che cessasse la sua azione violenta, accettando quindi il gioco parlamentare. Ma per comprendere appieno le idee di Mussolini in questo particolare momento, è molto utile analizzare il suo primo discorso alla Camera, discorso ch'egli pronunciò in risposta al discorso della Corona. Egli iniziò con il criticare la politica di Sforza in fatto di politica estera; non condivideva né la politica italiana in Alto Adige, né quella italiana con la Jugoslavia. Non a caso si erano verificate numerose spedizioni punitive delle squadre fasciste, proprio contro le comunità slovene a Trieste e contro quelle di lingua tedesca in Alto Adige. Ma ciò che maggiormente interessa è l'atteggiamento di Mussolini nei confronti della politica interna e particolarmente nei confronti degli altri partiti. Mussolini affermò la vocazione anticomunista dei fascisti. "Finchè i comunisti parleranno di dittatura proletaria, - affermò Mussolini di repubbliche, di più o meno oziose assurdità, fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. La nostra posizione varia, quando ci troviamo di fronté al partito socialista. anzitutto ci teniamo bene a distinguere quello che è movimento operaio da quello che è partito politico... Noi, e qui ci sono testimoni che possono dichiararlo, non abbiamo mai preso aprioristicamente un atteggiamento di opposizione contro la Confederazione generale del lavoro. Aggiungo che il nostro atteggiamento verso la Confederazione generale del lavoro potrebbe modificarsi in seguito, se la Confederazione stessa, ed i suoi dirigenti lo meditano da un pezzo, si distaccasse dal partito politico socialista... Ascoltate, del resto, quello che sto per dire. Quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore. Non ci opporremo e voteremo a favore di tutte le misure e dei provvedimenti, che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione. Non ci opporremo nemmeno ad esperimenti di cooperativismo: però vi dico subito che ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione! Ne abbiamo abbastanza del socialismo di stato! E non desisteremo nemmeno dalla lotta, che vorrei chiamare dottrinale, contro il complesso delle vostre dottrine, alle quali neghiamo il carattere di verità e soprattutto di fatalità. Neghiamo che esistano due classi, perchè ne esistono molte di più; neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico. Neghiamo il vostro internazionalismo, perchè è una merce di lusso che solo nelle alte classi può essere praticato, mentre il popolo è disperatamente legato alla sua terra nativa..." Quindi il discorso di Mussolini si occupò del partito popolare: "Ricordo ai popolari che nella storia del fascismo non vi sono invasioni di chiese, e non c'è nemmeno l'assassinio di quel frate Angelico Grassi, finito a revolverate ai piedi di un altare. Vi confesso che c'è qualche legnata e che c'è un incendio sacrosanto di un giornale, che aveva definito il fascismo una associazione a delinquere. Il fascismo nòn predica e non pratica l'anticlericalismo... Qui è stato accennato al problema del divorzio. Io, in fondo in fondo, non sono divorzista, perchè ritengo che i problemi di ordine sentimentale non si possono risolvere con formule giuridiche; ma prego i popolari di riflettere se sia giusto che i ricchi possano divorziare andando in Ungheria, e che i poveri diavoli siano costretti qualche volta a portare una catena per tutta la vita. Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini per quel che riguarda il problema agrario... Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo... l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano... Sono all'ultima parte del mio discorso, - disse ancora Mussolini - e voglio toccare un argomento molto difficile, e che, dati i tempi, è destinato a richiamare l'attenzione della Camera. Parlo della lotta, della guerra civile in Italia... E' inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l'autorità dello Stato. Il compito è enormemente difficile, perchè ci sono già tre o quattro Stati in Italia, che si contendono il probabile, possibile esercizio del potere... La guerra civile si .aggrava anche per questo fatto: che tutti i partiti tendono a formarsi, a inquadrarsi in eserciti; quindi l'urto, che se non era pericoloso quando si trattava di partiti allo stato di nebulosa, è molto più pericoloso oggi che gli uomini sono nettamente inquadrati, comandati e controllati. D'altra parte è pacifico, oramai, che sul terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baldesi, ma non ne diceva la ragione profonda; ed è questa: che le masse operaie sono naturalmente, oserei dire santamente, pacifondaie, perchè rappresentano sempre le riserve statiche della società umana, mentre il rischio, il pericolo, il gusto dell'avventura sono stati sempre il compito, il privilegio delle piccole aristocrazie. E allora, o socialisti, se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo, allora dovete concludere che avete sbagliato strada. La violenza non è per noi un sistema, non è un estetismo, e meno ancora uno sport, è dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare, se voi disarmate a vostra volta, soprattutto gli spiriti. Nell'Avanti! del 18 giugno, edizione milanese, è detto: "Noi non predichiamo la vendetta come fanno i nostri avversari. Pensiamo all'ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili, anzi necessarie, lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista, o signori, sta a voi illuminare gl'incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola, abbiamo già compiuto la nostra opera". Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gl'incoscienti, che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo, degli agenti del Governo; dovete disarmare i criminali, perché abbiamo nel nostro martiro- logio 176 morti. Se voi farete questo, allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia... Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco, si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo, perché, andando avanti di questo passo, la Nazione corre serio pericolo di precipitare nell'abisso. Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà, prima di deporre le nostre armi, disarmate i vostri spiriti." Con questo discorso Mussolini avviò quel tentativo di conciliazione, che rispondeva a due ordini di necessità: da un canto l'esigenza di riprendere il controllo del partito, che ormai sfuggiva dalle sue mani e che organizzava spedizioni punitive a carattere locale, senza tener conto di una strategia politica complessiva; in secondo luogo la necessità di abituare il partito a entrare nel gioco parlamentare, ottenendo in cambio la collaborazione di forze politiche, presenti in modo massiccio alla Camera.

31) IL GOVERNO BONOMI

Alla caduta del governo Giolitti, furono indicati al re, nel corso delle consultazioni parlamentari per risolvere la crisi, i nomi di due deputati: Enrico De Nicola, insigne giurista napoletano di orientamento liberal-democratico, ed Ivanoe Bonomi di orientamento social-riformista e che già aveva fatto parte del dimissionario governo Giolitti. De Nicola, al quale andavano le maggiori simpatie dei partiti, rinunciò all'incarico, spaventato dalle gravi responsabilità e conscio delle difficoltà ardue, che si presentavano per un governo, che volesse governare in un parlamento, privo di chiare maggioranze precostituite. L'incarico fu quindi affidato a Bonomi, che accettò, e che già il 4 luglio riuscì a formare un nuovo governo del quale fecero parte: della Torretta agli Esteri; Bonomi stesso agli Interni; Soleri alle Finanze; De Nava al Tesoro; Rodinò alla Giustizia. Si trattò quindi di un governo, formato da uomini di estrazione eterogenea, di diversa ispirazione ed ideologia: socialriformisti, popolari, democratico-sociali e uomini di destra, i quali però parteciparono al governo a titolo personale. L'Italia continuava frattanto ad essere insanguinata dalla lotta armata fra gli opposti schieramenti socialisti e fascisti. Il problema dell'ordine pubblico imponeva una soluzione in modo prioritario. Mussolini nel suo primo discorso alla Camera aveva avanzata la proposta di un patto di pacificazione, che ponesse termine alla guerra civile in atto fra gli opposti schieramenti. I suoi tentativi di giungere ad "una tregua d'armi" con i "rossi si fecero ancora più evidenti dopo i fatti di Sarzana. Il 21luglio una numerosa squadra fascista si era avviata alla volta di Sarzana, con lo scopo di liberare dal carcere di quella città, alcuni "camerati", che vi erano trattenuti in stato di detenzione: fra questi faceva particolare spicco Renato Ricci, uno dei più violenti squadristi fascisti. Ma, contrariamente a quanto da tempo ormai avveniva, stavolta la squadra fascista trovò a difendere il carcere i carabinieri, che aprirono il fuoco contro i fascisti, uccidendone tre e ferendone altri. I restanti componenti della squadra sì sbandarono, fuggendo quindi nella campagna; ma lì trovarono ad attenderli socialisti e comunisti, che approfittarono dell'occasione per inseguirli, dando loro la caccia: al termine della giornara si erano avuti da parte fascista 18 morti e 30 feriti. Era la prima volta che i fascisti si scontravano con la forza pubblica, dimostrando chiaramente, che senza la connivenza dei "tutori dell'ordine", essi non avrebbero potuto portare a compimento con tanta facilità le loro spedizioni punitive. Il fatto impressionò l'opinione pubblica e lo stesso Mussolini, il quale temette che l'atteggiamento di aperta connivenza della forza pubblica fosse mutato e quindi si affrettò a cercare una via di conciliazione ed un "modus vivendi" con i suoi avversari politici. Intanto erano iniziati i contatti fra esponenti fascisti ed esponenti socialisti per giungere alla pacificazione. Acerbo e Giuriati per i fascisti, Zaniboni ed Ellero per i socialisti, s'incontrarono a più riprese alla ricerca di un compromesso di pacificazione. Assunse ruolo d'intermediario l'on. Enrico De Nicola, al quale le parti si erano rivolte per l'arbitrato. Il 3 agosto 1921, arbitro l'on. De Nicola, presidente della Camera, fu firmato il patto di conciliazione fra fascisti e socialisti. Tuttavia il patto rimase soltanto sulla carta; esso non venne rispettato né dai fascisti, in preda ad una vera e propria crisi interna, che portava all'indisciplina del movimento, né dai socialisti, i quali assunsero di essere stati provocati e di avere dovuto agire per difendersi. I comunisti dal loro canto non avevano sottoscritto il patto, né vollero partecipare alle trattative, mentre i popolari vi parteciparono in veste di invitati, astenendosi da un diretto intervento, temendo di restare coinvolti anch'essi nelle lotte delle opposte fazioni. Sembrava quasi che la guerra civile, ormai in atto nel Paese, non interessasse tutti, ma soltanto una parte dei cittadini; di conseguenza tutti gli altri potevano astenersi da qualsiasi atto, in attesa che la lotta in qualche modo finisse. Fu l'ignavia che consentì ai fascisti alla fine di trionfare. Tutto sommato i più coerenti con la situazione furono i comunisti, ai quali "parlare di pace sembrava pura ipocrisia. Per loro iniziativa in quel torno di tempo erano apparsi, anzitutto a Roma, i cosiddetti arditi del popolo, i quali, organizzati dal deputato comunista Mingrino, imitavano i metodi delle squadre fasciste. Mussolini ne fu impressionato, e temette che l'iniziativa potesse avere un seguito, con le conseguenze facilmente immaginabili per il suo movimento, che sarebbe rimasto schiacciato dall'enorma massa dei suoi oppositori. Invano Mussolini cercò di convincere il suo movimento a rispettare il patto di pacificazione; l'indisciplina serpeggiava anche nella direzione del fascismo e non consentiva di svolgere un'azione unica a carattere nazionale. Il 16 agosto, a Bologna, i dirigenti del fascismo emiliano e romagnolo, respinsero il patto, ritenendolo dannoso per il fascismo. Mussolini allora, il seguente giorno 17, si dimise da membro del Comitato centrale dei Fasci. Egli non intendeva essere il capo di uomini, che invece di seguire le sue direttive, agivano di testa loro. Aggiungeva inoltre che era impensabile che i fascisti avessero la presunzione di lottare e di sterminare due milioni di socialisti, sicché occorreva cercare altre vie, che non fossero quelle della lotta armata. Comunque le sue dimissioni furono respinte, aùche se doveva essere chiaro a Mussolini ch'egli era si, il capo del Fascismo, ma non il padrone del movimento. Mussolini dovette allora rendersi conto della necessità di agire in seno al suo movimento, e trasformarlo in partito, con dei regolamenti ben precisi che potessero imbrigliare lo squadrismo, che adesso minacciava di distruggere quanto sino ad allora faticosamente conquistato. A tutto ciò era da aggiungere l'atteggiamento sempre più deciso delle forze di polizia contro i fascisti: così ad esempio a Modena, il 26 settembre, quando una formazione di circa un migliaio di fascisti tentò di entrare in città per una spedizione punitiva, trovò ad attenderli la Guardia regia, che aprì il fuoco contro di essi, uccidendo otto fascisti e ferendone una trentina. S'imponeva quindi una scelta definitiva:le bande armate dovevano cedere il passo alla direzione politica del movimento, che doveva diventare partito: nasceva così il Partito Nazionale Fascista

32) FONDAZIONE DEL PARTITO FASCISTA

Malgrado il patto di pacificazione, firmato fra socialisti e fascisti, i disordini e le azioni violente continuarono ininterrotte. Unica novità fu adesso la presenza di formazioni paramilitari comuniste, che iniziarono anch'esse a svolgere azioni punitive a carattere violento. Ciò dette maggior forza ai gruppi fascisti che volevano la denuncia del patto, ed intendevano continuare nelle loro azioni violente. Si ebbero quindi gravissimi incidenti a Bologna, Ravenna, Mola di Bari, Modena e Trieste. Invano il Governo aveva impartito istruzioni alle prefetture ed alle questure d'intervenire per evitare i disordini, ormai era chiaro che agenti e carabinieri si erano fascistizzati, ed essi trovavano appoggio da parte dei propri ufficiali, che non li redarguivano, ma sotto sotto li lodavano; a tutto ciò si aggiungeva la magistratura, anch'essa fascistissima, sicché divenne impossibile al Governo opporsi alla crescente marea del disordine e dell'anarchia dilagante. Il movimento fascista a questo punto era in crisi. "L'autorità di Mussolini sembrava scossa. I vari capi acquistavano un potere indipendente e lo esercitavano imponendo leggi baronali da provincia in provincia... I diversi ras (così vennero chiamati i vari gerarchetti provinciali, potenti e prepotenti) erano quasi tutti per la rivoluzione permanente, contro il padamentarismo cui sembrava indulgere Mussolini. Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, Giunta a Trieste, Perrone-Compagni a Firenze, Ricci a Carrara, Caradonna a Bari esercitavano le loro satrapie secondo criteri personalissimi e seguendo scopi divergenti". Dal 7 al 10 novembre si riunì quindi a Roma il congresso fascista, il quale avrebbe dovuto ratificare la trasformazione del movimento fascista in partito. Tuttavia restavano alcune gravi questioni di fondo da decidere: se bisognasse fondere il partito, dando un programma allo stesso; se bisognasse mantenere l'organizzazione squadrista del movimento. Al primo di questi quesiti, si rispose con la decisione di attenersi ad un programma contingente, necessariamente vago; mentre al secondo quesito si rispose decidendo che l'organizzazione paramilitare del movimento, sarebbe rimasta ed istituzionalizzata dal Partito Nazionale Fascista. Frattanto, mentre si svolgeva il Congresso, l'atteggiamento aggressivo dei fascisti provocò una serie di disordini nella città di Roma, e si ebbero quindi gravi scontri tra fascisti e cittadini romani. Nel corso di questi disordini rimasero uccisi un ferroviere ed un congressista fascista. L'atmosfera del Congresso quindi risentì di questo clima teso, e Mussolini, che era venuto a Roma con la speranza di fare accettare ai congressisti il patto di pacificazione, dovette limitarsi a esortare i congressisti "a difendersi ma a non attaccare". Roma, ancora sotto l'impressione dell'arrivo nella Capitale della salma del milite ignoto, non tollerò i modi brutali dei fascisti. E Mussolini in proposito, nel suo discorso pronunciato in Parlamento l'I dicembre disse: "C'è stato un fenomeno di incomprensione tra i fascisti e la popolazione romana e sono così sincero da ammettere che la simbologia fascista, pittoresca, se si. vuole, ma ricordante troppo da vicino i simboli della fase estrema della guerra, abbia urtato una popolazione come quella di Roma, che è fondamentalmente edonistica, cioè portata a vivere tranquillamente la propria giornata.;. I fascisti credevano che il popolo di Roma fosse loro contrario; viceversa il popolo romano credeva che i fascisti fossero venuti a Roma per fare chi sa quale mal fantastica azione punitiva... Io ricordo che nel discorso dell'Augusteo dissi ai fascisti parole durissime, come forse non ne poteva dire nemmeno un socialista; dissi che era eccessivo il saluto ai gagliardetti; (i fascisti avevano preteso che la gente si levasse il cappello e salutasse rispettosamente i loro gagliardetti - n. d. r.) ma vi faccio considerare che le fedi che sorgono sono necessariamente intransigenti, mentre sono transigentissime le fedi che declinano e muoiono. Il Congresso di Roma si chiuse con una serie di azioni violente da ambo le parti, mentre i ferrovieri proclamavano, per l'uccisione del loro collega, lo sciopero generale. Infine il patto di pacificazione, mai rispettato, ma che almeno formalmente era durato dall'agosto alla fine di novembre, fu definitivamente denunzìato dai socialisti. Essi inoltre accusarono il Governo di avere tollerato le bande armate, e d'aver fallito il programma governativo, che prevedeva il ripristino dell'autorità dello Stato. Giustamente Mussolini coglieva nel segno la contraddizione della mozione socialista, che da un canto chiedeva protezione al Governo, e da un altro canto, negava la legittimità stessa di quello stesso Governo "borghese", al quale chiedeva protezione. "Non sapete uscire da questa contraddizione - diceva Mussolini ai socialisti - in cui si annulla tutto vostro programma. Ma nella sostanza dei fatti Mussolini non riuscì con la trasformazione del suo movimento in partito a riprendere pienamente il controllo dei fascisti. Egli a quel punto decise di accettare la formula della violenza, e ciò per non essere estromesso del tutto dal Partito fascista.

33) ULTIMI TENTATIVI DI BONOMI PER SUPERARE LA CRISI

Alla fine di novembre del 1921 i socialisti presentarono interpellanza alla Camera contro il Governo, accusandolo di essere complice delle violenze fasciste, e di tollerare apertamente le bande armate, che ormai da tempo spadroneggiavano lo Stato. Si aprì quindi in Parlamento la discussione e Bonomi affermò che nei confronti delle squadre fasciste, così come contro le squadre dell'estrema sinistra, chiamate "arditi del popolo", il governo avrebbe applicato le leggi con la massima severità non tollerando che all'interno dello stato potessero crearsi delle forze incontrollate e armate, che avrebbero potuto turbare l'ordine democratico dello stesso. Si venne quindi alla questione della fiducia e il governo la ottenne superando quindi indenne la tempesta. Il risultato comunque di questa discussione alla Camera fu una circolare di Bonomi ai prefetti con la quale ripetutamente egli ribadiva la necessità di essere imparziali e di applicare rigidamente la legge contro tutti quei cittadini che si costituivano in banda armata. Frattanto la procura del re di Milano apriva un'inchiesta a carico di Mussolini per il delitto di formazione di corpi armati contro lo stato ed altri reati. Questa procedura si nianifestò con la richiesta di autorizzazione a procedere contro l'onorevole Mussolini; ma pochi mesi dopo, avendo Mussolini conquistato il potere, ovviamente la richiesta passò sotto silenzio e di essa non si fece più nulla. Ma il vero problema dell'Italia rimaneva quello di un socialismo che non sapeva vedere nello Stato l'arma, attraverso la quale, avrebbe potuto combattere il nascente fascismo; era troppo abituato e troppo aveva predicato contro di esso, e adesso non riusciva più ad inserirsi in una visione di governo del paese seria e costruttiva. I collaborazionisti, tra i quali continuava a fare spicco Turati, restavano in minoranza e non avevano alcuna probabilità di riuscire a staccarsi dall'ala intransigente, per tentare di governare lo stato italiano. Dall'altro lato il partito popolare, ancora incerto circa le direttive politiche da seguire, e anch'esso praticamente congelato contro il socialismo, contro il giolittismo, contro il fascismo, viveva in uno splendido isolamento rendendo lo stato italiano del tutto ingovernabile. Di ciò si rese conto Mussolini il quale nel suo discorso alla Camera dell'1 dicembre non fece altro che constatare la situazione di impasse nel quale le funzioni dello stato erano cadute, non consentendo nessuna forma di governabilità. Egli quindi proponeva l'eventualità di un gabinetto di tecnici oppure una dittatura militare, ma si rendeva conto che quest'ultima carta era estremamente pericolosa e da tentare in casi di assoiutà necessità. In ogni caso l'atteggiamento di Mussolini e dei fascisti restava equivoco. Da un canto, egli blandiva le forze parlamentari, da un altro canto le disprezzava e ricorreva alla violenza per averne ragione. Il contradditorio atteggiamento dei fascisti tuttavia invece di indurre le forze democratiche ad assumere precisa posizione, le disorientò notevolmente non consentendo ad esse un'adeguata reazione e paralizzando.ne in pratica qualsiasi tentativo di azione politica.reazione e paralizzandone in pratica qualsiasi tentativo di azione politica. La circolare spedita da Bonomi ai prefetti incominciò tuttavia a sortire degli effetti positivi, sicchè le varie Prefetture vigilando e incominciando a ritirare le ingenti quantità di armi illegalmente circolanti in Italia, ridussero notevolmente l'area della conflittualità e i conseguenti atti criminali ad essa legata. Ma proprio quando la nuova politica di Bonomi stava incominciando a sortire un qualche effetto positivo ed iniziava ad impensierire Mussolini, che si rendeva contò che il mutato atteggiamento del Governo avrebbe potuto ridimensionare notevolmente le aspirazioni fasciste, proprio allòra, il governo Bonomi cadde su una questione che tra l'altro non aveva alcun nesso con la situazione politica che si era verificata in Italia. Nel 1914 dalla fusione della banca di Busto Arsizio con la Società Bancaria era nata una nuova banca la cosiddetta Banca Italiana di Sconto. Questo istituto che nel corso della guerra si era occupato di finanziamenti alle industrie belliche, si era venuto gravemente scoperto nei confronti dei suoi clienti, sicchè alla fine del 1921 aveva uha posizione debitoria nei confronti della Banca d'Italia di diciassette miliardi di lire di quel tempo. Contro questo gravissimo debito vi erano dei crediti di difficile e dubbio realizzo e soprattutto mancava la liquidità, cercando ormai tutti i correntisti, allarmati dalle voci che circolavano sulla liquidità della banca, di ritirare il proprio danaro. Da più parti, ma soprattutto da parte degli industriali, si richiese l'intervento del governo per evitare il fallimento della banca, fallimento che avrebbe inevitabilmente coinvolto numerose grandi aziende industriali. Tuttavia il governo non si sentì di farsi carico di un passivo così considerevole e ritenne inoltre che non rientrasse nei compiti e nelle mire politiche del governo salvare istituti così gravemente deficitari come la Banca Italiana di Sconto. Per cui il Ministro dell'industria e Commercio Bellotti, d'accordo con il presidente del consiglio Bonomi, decise di non intervenire tramite il Tesoro e di lasciare che la Banca fosse posta in liquidazione. Contro il Governo si vennero a coalizzare forze disparate e di ispirazione diversa sicchè, essendosi reso conto Bonomi di non avere più una maggioranza in Parlamento, presentò le dimissioni al Re il 2 febbraio 1922. Il Re tuttavia respinse le dimissioni di Bonomi invitandolo a presentarsi dinnanzi alla Camera per tentare di salvare il Governo in un momento in cui il Paese aveva assoluto bisogno che lo Stato mantenesse una continuità governativa e la linea politica già intrapresa. Così come Bononii aveva previsto si dichiararono contro il governo i democratico-sociali, i nazionalisti, i socialisti, i comunisti e tùtta la destra; sicchè essendo rimasti a favore di Bonomi soltanto i popolari, la fiducia venne negata al Governo che cadde il 17 febbraio con ben 295 voti contrari contro solo 107 favorevoli. Si apriva quindi un'ulteriore crisi governativa, dalla quale doveva scaturire un ultimo governo democratico, quello debole e impotente di Facta, passato alla storia come esempio insuperato di inefficienza e incapacità.

34) IL GOVERNO FACTA

Caduto il governo Bonomi e coppiata la quinta crisi in due anni si dimostrò fin dall' inizio molto difficile la formazione del nuovo Governo. La designazione del nuovo Presidente cadeva ovviamente e nuovamente su Giolitti, che restava il più prestigioso leader politico italiano. Tuttavia i popolari si opposero recisamente ad un governo giolittiano per due ordini di motivi; anzitutto perchè Giolitti aveva programmato la nominatività dei titoli, e questo provvedimento era contrario agli interessi del Vaticano, che aveva quindi posto il suo veto ad un governo giolittiano con simile programma; in secondo luogo da parte di don Sturzo esisteva una profonda avversione nei confronti di Giolitti, del quale egli non condivideva i metodi di governo spesso al margine della legalità, anche se innegabilmente i vari governi Giolitti avevano assicurato all'Italia un progresso civile di incalcolabile importanza. Tuttavia ufficialmente il veto sturziano fu giustificato dal fatto che i popolari intendevano opporsi a quegli elementi che secondo loro avevano voluto la crisi, al fine appunto di strumentalizzarla. In altri termini don Sturzo riteneva che fosse stato proprio Giolitti ad ispirare con astuta manovra la crisi governativa al fine appunto di ottenere il reincarico governativo. Senz'altro la decisione dei popolari fu di gravissima importanza, non consentendo in quel momento l'unica possibilità effettiva di governo che rimaneva all'Italia democratica. Giustamente Filippo Meda giudicò almeno inopportuna questa aperta e totale ostilità di don Sturzo e dei popolari contro Giolitti. In ogni caso questa opposizione a priori contro Giolitti ne rese sdegnoso il comportamento, inducendolo ad abbandonare l'Italia, ponendosi quindi fuori del tutto dalla crisi e dagli intrighi ministeriali, e costringendolo quindi ad esprimere aperte simpatie nei confronti dei fascisti. Il re, caduta la candidatura Giolitti, pensò di incaricare l'onorevole De Nicola. Costui godeva le simpatie sia dei socialisti che dei popolari ed avrebbe potuto effettivamente ottenere la maggioranza in Parlamento. Ma gli enormi problemi che si ponevano innanzi allo Stato, e gli scarsi mezzi dei quali si disponeva per fronteggiarli, lo scoraggiarono grandemente e lo portarono a rifiutare definitivamente qualsiasi incarico, evitando quindi la formazione di un governo che egli non si sentiva di presiedere. Nuovo tentativo venne quindi fatto cdn Orlando, il quale godeva l'appoggio di tutta la destra e dei liberali, ma i popolari richiesero un numero tale di portafogli da rendere impossibile la formazione del nuovo governo. A questo punto il re si vide costretto a respingere le dimissioni di Bonomi, che ancora non si era presentato alla Camera per il dovuto dibattito. Egli quindi invitò Bonomi a presentarsi al Parlamento, che come sappiamo, gli negò la fiducia con 295 voti contrari e solo 107 favorevoli. Adesso la crisi si riaprì in modo drammatico, fu quindi necessario che il re trovasse una soluzione e potesse quindi designare un qualsiasi personaggio politico in grado di raccogliere una maggioranza che permettesse di governare alle bene meglio il Paese. Falliti i tentativi quindi nei confronti di Giolitti, di Orlando, di De Nicola, e anche di Meda, si ripiegò su l'onorevole Facta, già ministro con Giolitti, del quale si conoscevano le doti di galantuomo ma anche le scarse capacità politiche e quindi sembrava l'uomo adatto, proprio per la sua debolezza, a consentire un ministero di transizione fino a quando la situazione politica si fosse chiarita e fosse quindi possibile formare un governo stabile. Del nuovo governo entrarono a far parte tre popolari ed esattamente Bertone alle Finanze, Anile all'Istruzione e Bertini all'Agricoltura; un riformista l'onorevole Dello Sbarba al Ministero del Lavoro. Ben dieci erano i democratici tra i quali Schanzer agli Esteri, Peano al Tesoro, Rossi alla Giustizia; alle colonie era stato chiamato Amendola, dichiarato nemico dei fascisti; Di Cesarò era stato chiamato alle Poste, mentre l'onorevole Riccio, salandrino, venne designato Ministro dei Lavori Pubblici. Il 18 marzo il ministero Facta si presentò alla Camera, la quale gli accordò la fiducia con 75 voti favorevoli contro soli 89 contrari. Votarono a favore tutti i deputati, ecetto i socialisti, i comunisti, e qualche indipendente.

35) I FASCISTI OCCUPANO FIUME

L'onorevole Facta era appena riuscito a formare il suo governo quando ai primi di marzo del 1922 i fascisti fiumani, al comando del gerarca triestino Giunta, notoriamente uno degli uomini più violenti dell'intero partito, radunando squadre d'azione in Toscana, in Emilia, nel Veneto e in Sardegna, invasero Fiume assalendo il Palazzo del Governo e aprendo il tiro contro di esso, costringendo infine Riccardo Zanella, presidente del governo locale, ad abbandonare la sua città. Secondo la testimonianza dello Zanella furono complici delle squadre fasciste anche quei carabinieri che avrebbero invece dovuto intervenire per difendere il legittimo governo fiumano. Tuttavia il governo italiano rifiutò di assumere i poteri della città, che restò quindi affidata momentaneamente ad un governo militare italiano. Ancora una volta quindi Fiume era la pietra di paragone e il banco di prova di una tattica che avrebbe dovuto trovare a Roma e contro il leggittimo Governo la sua definitiva espressione. Ovviamente le questioni che ancora stavano aperte tra Roma e Belgrado subirono un certo irrigidimento, tuttavia grazie anche all'iniziativa di Lloyd George si riunì dal 10 aprile al 19 maggio a Genova una riunione di tutti i rappresentanti degli stati europei, i quali intendevano trattare integralmente i problemi connessi alla ricostruzione post-bellica europea e che ovviamente non poterono non interessarsi anche di quanto era avvenuto da poco nella città di Fiume. L'impresa fascista di Fiume ebbe delle ripercussioni in Parlamento. I socialisti presentarono una mozione chiedendo che venisse condannata la violenza fascista e chiedendo inoltre che il Governo ripristinasse al più presto la legalità. Tuttavia la mozione socialista ottenne soltanto 82 voti; anche Giolitti votò contro di essa. Frattanto saliva al soglio pontificio l'arcivescovo di Milano Achille Ratti che assumeva il nome di Pio XI. Costui era ritenuto un simpatizzante del movimento fascista e Mussolini si dava da fare per accreditare questa voce ed ottenere così il favore di una parte della gerarchia ecclesiastica.Tenuto conto quindi di questi successi fascisti, cioè della impresa fiumana e della elezione al soglio pontificio di un Papa che sembrava guardare con benevolenza al movimento fascista, risultò chiaro ed evidente come mai le circolari dell'ex presidente Bonomi, che il nuovo Governo non aveva di certo annullato, cadessero nel nulla e venissero disattese completamente dalle prefetture, alle quali erano state inviate. Adesso Mussolini comprendeva che si stava per avviare verso una battaglia decisiva ed in tal senso si ebbero delle vere e proprie prove generali almeno in due parti d'Italia:
a Ferrara quarantamila fascisti rurali, comandati da Italo Balbo, occuparono militarmente la città; a Bologna dall'1 al 2 giugno le squadre fasciste riuscirono a occupare completamente la città ottenendo la resa del comandante militare della città, generale Fani, e l'appoggio indiretto del dirigente della Pubblica Sicurezza Migliani, mandato a Bologna al fine di trattare con i vincitori. I cedimenti del governo erano diventati la norma e nessuna impressione doveva quindi fare di lì a poco la marcia su Roma e la conseguente conquista del potere.

36) IL GOVERNO FACTA BATTUTO IN PARLAMENTO

Nel mese di luglio le squadre fasciste effettuarono una serie di spedizioni di particolare violenza. Il 3 luglio ad Adria, il 13 luglio a Cremona, il 17 nell'Umbria, il 24 a Magenta, il 26 a Ravenna si verificarono una serie di violenze che provocarono diversi morti, ma soprattutto panico fra i cittadini benpensanti, i quali si chiedevano angosciati se a comandare fossero i fascisti oppure ancora il governo di Roma. Di particolare violenza si rivelò l'occupazione del municipio di Cremona e l'offensiva contro tutte le organizzazioni socialiste e le case del popolo scatenata da Farinacci in questa provincia. L'impressione nel Paese fu enorme e la tensione giunse al massimo grado. Il 19 luglio questa gravissima situazione ebbe il suo epilogo in Parlamento dove in seguito ad una serie di interpellanze si era discusso circa le violenze fasciste; il presidente del Consiglio Facta non aveva saputo far altro che assicurare l'imparzialità del governo e che si sarebbe fatto di tutto per far rispettare la legge. Ed in effetti le sue circolari erano in tal senso, ma da parte delle autorità pubbliche cioè le forze di polizia, i carabinieri, l'esercito, ed infine anche la magistratura vi era un'aperta connivenza con i fascisti, e ciò non consentiva a queste circolari di esprimersi effettivamente e di diventare realtà concreta e vivente della Nazione. Si giunse quindi ad un voto di fiducia al governo Facta che fu messo in crisi apputo il 19 luglio con 288 voti contrari e soli 103 favorevoli. Il governo era quindi nuovamente in crisi per l'ennesima volta ed ancora una volta il Parlamento si dimostrò impotente ed incapace di esprimere una qual si voglia maggioranza: Giolitti rimaneva lontano in Francia facendo sapere che non intendeva assumere alcuna carica governativa; lo stesso Giolitti però poneva il suo veto a un'eventuale governo popolare, guidato da quel "pretucolo" di don Sturzo; infine i socialisti e comunisti rimanevano cristallizzati nelle loro posizioni disfattiste e antigovernative che non consentivano l'utilizzazione della loro importante forza ai fini di governo e ai fini parlamentari. Il re quindi tentò una serie di possibili soluzioni: un governo Orlando non fu possibile farlo perchè la destra liberale si dichiarò non disponibile e tutt'altro che propensa alla proposta Orlando e Sturzo di abbandonare l'alleanza con i fascisti; il re allora designò Bonomi, ma anch'egli si rese conto che non era possibile in quel momento formare un governo; si tentò quindi un governo Meda ma nella realtà dei fatti anche Meda, deputato dei popolari, non potè accettare incarichi governativi, giustificando il rifiuto con la volontà di non abbandonare la professione forense, e i due incarichi erano incompatibili fra di loro. La situazione frattanto nel nostro Paese diveniva sempre più grave. Da alcune prefetture si segnalava il pericolo imminente di un tentativo di colpo di stato fascista diretto verso la capitale, e ciò induceva il re a stringere i tempi, tentanto nel più breve tempo possibile di formare un qualsivoglia governo. L'onorevole Facta osservava giustamente che senza governo non si poteva stare, nè il Paese poteva attendere all'infinito che si chiarissero le idee dei suoi uomini politici. Facta aggiungeva di essere disposto a formare un ministero, in attesa che gli eventi maturassero, e potessero condurre ad una svolta politica l'Italia. Occorreva senza altri indugi che il Paese avesse un minimo di direttive e non continuasse a brancolare nel buio più assoluto. Spinti quindi da queste impellenti necessità, si varava un nuovo gabinetto Facta, governo che rimaneva sostanzialmente invariato, con le uniche eccezioni del senatore Taddei, nominato ìl nuovo ministro degli Interni (il Taddei, già prefetto di Torino, era considerato un uomo energico ed imparziale), mentre al ministero della Giustizia ed a quello della Guerra venivano chiamati Giulio Alessio e Marcello Soleri. I rimanenti ministri erano quelli del precedente governo Facta. Il nuovo Governo fu formato ai primi di agosto (si trattava del classico governo balneare all'italiana). Il 31 luglio era stato proclamato dalle confederazioni sindacali un grande sciopero generale in tutta Italia. Si trattò dello sforzo supremo, compiuto dalle organizzazioni sindacali, d'accordo con socialisti e comunisti, al fine di spingere il governo ad assumere un inequivocabile atteggiamento antifascista. Ma nella realtà de fatti "lo sciopero era l'estremo sussulto di una classe operaia ormai disfatta". Lo sciopero fu chiamato da Turati "legalitario", e nel suo complesso ebbe mediocre successo; esso avrebbe dovuto, secondo gli intendimenti di Turati e delle sinistre unite, "aiutare la formazione di un ministero di sinistra; ma invece affrettò la chiusura della crisi col ritorno a Facta e la rinuncia dei popolari e dei democratici a ogni proposito di collaborazione con i socialisti; e in fatto di reazione al fascismo raggiunsè l'effetto contrario, quello del suo pieno trionfo. La mobilitazione delle squadre fu dappertutto immediata (ogni loro movimento da provincia a provincia era stato predisposto). La direzione del partito nazionale fascista avvertì con un proclama, che se entro quarantotto ore lo Stato non avesse dato prova "della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano all'esistenza della nazione", il fascismo avrebbe rivendicato "piena libertà d'azione", e si sarebbe sostituito all'sutorità statale. Al proclama fascista seguì la mobilitazione di tutte le squadre e quindi di conseguenza si ebbero gravissimi episodi di violenza in diverse città italiane: a Genova, a Milano, ad Alessandria si ebbero una serie di episodi di notevole gravità. A Milano squadre milanesi, mantovane, cremonesi e pavesi riuscirono ad occupare la sede del comune, Palazzo Marino, senza che le forze di pubblica sicurezza intervenissero per ristabilire la legalità. Dal Palazzo Marino si tornò a vedere Gabriele D'Annunzio, nuovamente con la bandiera del Timavo del maggiore Randaccio. Egli dichiarò di sentire in quel momento che la volontà d'Italia intera, già sbandata per altre vie, adesso tendeva ad incamminarsi sulla via sicura delle sue fortune di grandezza e di gloria". Ancora una volta si assistette ad episodi di violenza con numerosi morti e feriti e conseguente distruzione di sedi di giornali, partiti, camere del lavoro ed altre associazioni sindacali. Altri scontri si verificarono a Livorno, a Parma, ad Ancona ed a Bari. Il 9 agosto Facta si presentò alla Camera per render conto del comportamento del Governo in quei momenti drammatici. Ancora una volta egli non seppe far nulla di meglio che affermare a parole l'imparzialità dello Stato e la ferma determinazione del Governo a perseguire qualsivoglia movimento eversivo. Lo stesso 9 agosto il Parlamento gli concesse la sua fiducia con 247 voti favorevoli contro 121 contrari. Votarono contro soltanto i deputati fascisti e quelli dell'estrema sinistra. Da questo momento il fascismo si dette a studiare dettagliatamente la strategia ed i mezzi attraverso i quali avrebbe potuto realizzare la sua conquista del potere. Già il 13 agosto a Milano si era riunito il Consiglio Nazionale del partito fascista ed aveva messo in evidenza che al fascismo si aprivano due strade per la conquista del potere: o quella delle libere elezioni, che avrebbero potuto consentire, attraverso ùna grande affermazione elettorale, al partito fascista di diventare Stato; ovvero rimaneva la via dell'insurrezione armata, per la quale il partito fascista si stava adeguatamente preparando, dandosi un rigido inquadramento ed una organizzazione di carattere militare. In previsione che fosse necessario ricorrere al "colpo di stato" vennero eletti tre capi, ai quali era demandato il compito di sovrintendere alla esecuzione di eventuali movimenti di carattere militare, qualora le cincostanze politiche dello Stato lo avessero richiesto. E' sorprendente in tutto ciò, che queste gravi misure insurrezionali venissero prese pubblicamente, senza che da parte delle autorità dello Stato si manifestasse preòccupazione, nè venissero presi i provvedimenti del caso. Ma ormai l'Italia correva verso la dittatura ed il pericolo era accettato o forse sottovalutato da tutti. I mesi di settembre e di ottobre non furono altro che una preparazione alla marcia su Roma. Mussolini tentava due carte contemporaneamente: da una parte, sperava ancora di potere conquistare il potere con un sistema legalitario; da un altro canto non rinunciava all'idea dell'insurrezione armata. Ormai i gruppi antifascisti erano stati definitivamente battuti; i comunisti non seppero far altro che pubblicare un lungo manifesto, pieno di recriminazioni nei confronti degli altri partiti, senza nulla di costruttivo contro l'ormai imminente trionfo fascista. I socialisti, spaccati sempre più nelle due correnti massimalista e collaborazionista, si prepararono al loro congresso, nel corso del quale a Roma ai primi di ottobre si giunse. alla spaccatura ufficiale del partito, portando quindi alla nascita del partito socialista unitario, formato per la maggior parte da socialdemocratici. I popolari dal loro canto erano del tutto alieni a concepire una collaborazione con i socialisti, non dimentichiamolo di fede marxista, preferendo piuttosto pensare ad un governo con i fascisti, anche se obiettivamente non si vedeva la possibilità effettiva di una immediata realizzazione pratica di simile connubio. Così scriveva il ministro della Giustizia Alessio a Giolitti il 10 ottobre, e notiamo come questa lettera, che oggi costituisce importantissimo documento, non venisse spedita, come avrebbe dovuto, al presidente Facta, bensì al dimissionario Giolitti: Non passa giorno che i procuratori generali - specie quelli dei circondari più turbati dalle violenze fasciste... - non mi denuncino almeno 10 volte reati gravissimi. Dal 15 agosto al 22 settembre una statistica, fatta eseguire dal ministro scrivente, dava 369 reati esclusivamente per competizioni politiche: di questi 74 erano omicidi, 79 lesioni personali, 75 violenze private per bandi, 72 per danneggiamenti, 37 per appiccati incendi. Certe regioni vivono sotto un regime di terrore, per cui non si possono nemmeno tenere i processi penali.., in quanto le parti lese e i testimoni si guardano bene dal deporre per tema d'essere ammazzati o almeno bastonati. "Sicchè ci si avvicinava fatalmente, senza che lo Stato ormai disfatto ed impotente riuscisse a prendere una qualsivoglia iniziativa, o fosse in grado di decidere una qualche strategia difensiva, alla marcia su Roma. Il 24 ottobre del '22, a Napoli Mussolini pronunziò un discorso ai fascisti, lì raccolti, e già pronti alla marcia su Roma. Mussolini in quella occasione disse: "Noi fascisti, non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi, fascisti, non intendiamo rinunziare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali! Perchè noi abbiamo la visione, che si può chiamare storica, del problema, di fronte all'altra visione, che si può chiamare politica e parlamentare. Non si tratta di combinare ancora una volta un Governo purchè sia, più o meno vitale: si tratta di immettere nello Stato liberale - che ha assolto i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo - di immettere nello Stato liberale, tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria. Questo è essenziale ai fini dello Stato, non solo, ma ai fini della Storia, della Nazione. Ed allora? Allora, o signori, il problema, non compreso nei suoi termini storici, si imposta e diventa un problema di forza. Del resto, tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti di interessi e di idee, èla forza che all'ultimò decide. Ecco perchè noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perchè se l'urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi: noi ne siamo degni; tocchi al popolo italiano che ne ha il diritto, che ne ha il dovere, di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato perchè ucciderebbe l'avvenire."

37) LA MARCIA SU ROMA E LA CONQUISTA DEL POTERE

Mentre a Napoli si svolgeva il convegno del partito fascista, segretamente si attuavano gli ultimi preparativi per dar luogo al colpo di stato con la marcia su Roma. Era stato a tal fine costituito un quadrunvirato, formato dai gerarchi Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Italo Balbo e dal segretario del partito Bianchi. Il 27 ottobre 1922 fu pubblicato il proclama, già preparato giorni prima direttamente da Mussolini, con il quale iniziava la grande avventura fascista. Questo comunicato diceva: "Fascisti di tutta Italia! L'ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, l'Esercito Nazionale scatenò di questi giorni la suprema offensiva che lo condusse alla Vittoria: oggi, l'Esercito delle Camicie Nere riafferma la Vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio. - Da oggi, principi e triari sono mobilitati. La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore. - Dietro ordine del Duce i poteri militari, politici ed amministrativi della Direzione del Partito vengono riassunti da un Quadrunvirato segreto. d'Azione, con mandato dittatoriale. - L 'Esercito, riserva e salvaguardia suprema della Nazione, non deve partecipare alla lotta. - Il Fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all'Esercito di Vittorio Veneto. - Né contro gli agenti della forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che da quattro anni non ha saputo dare un Governo alla Nazione. - Le classi che compongono la borghesia produttrice sappiano che il Fascismo vuole imporre una disciplina sola alla Nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino l'espansione economica ed il benessere. Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell'impiego, nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati. Saremo generosi con gli avversari inermi; saremo inesorabili con gli altri. Il Fascismo snuda la sua spada lucente per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono ed intristiscono la vita italiana. Chiamiamo Iddio sommo e lo spirito dei nostri cinquecentomila morti a testimoni, che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci accoglie, una passione sola c'infiamma: contribuire alla salvezza ed alla grandezza della Patria. Fascisti di tutta Italia! Tendete romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!" Frattanto i fascisti avevano stabilito il loro comando strategico per la marcia su Roma a Perugia. In questa città poche squadre fasciste circondarono la Prefettura e costrinsero il prefetto ad arrendersi. Ciò avveniva il 27 sera. Il giorno 28 la cittadinanza di Perugia si svegliava apprendendo che i fascisti avevano assunto i poteri governativi per l'intera provincia. Erano state radunate per effettuare la marcia su Roma colonne fasciste per un totale di ventiseimila uomini. Ma si trattava di ventiseimila uomini male armati, inzuppati dall'acqua di un ottobre piovoso, e che con facilità avrebbero potuto essere bloccati. Queste colonne comunque dovevano concentrarsi nelle zone di Santa Marinella, Monte Rotondo e Tivoli, per muovere di lì verso la capitale. Avrebbero dovuto comandare le "truppe" fasciste Perrone-Compagni, affiancato al generale Ceccherini, Igliori col generale Farra, ed il gerarca Bottai. A Foligno infine erano state dislocate le magre riserve, al comando del generale Zamboni. Nella realtà dei fatti lo Stato sembrava voler cedere senza resistere: già dal 27 pomeriggio le squadre fasciste si erano presentate presso le prefetture, le questure, gli uffici telegrafici e telefonici, carceri, ed anche caserme, chiedendo alle autorità di arrendersi. Eccetto qualche sporadico episodio di resistenza, con facilità, queste, senza opporre la benchè minima resistenza, si arresero alle "autorità" fasciste, anche in considerazione del fatto che le squadre fasciste perseguivano una politica di conciliazione, cercando di evitare nei limiti del possibile lo scontro diretto con le forze militari, civili e di polizia: In altri termini i fascisti cercarono sempre di parlamentare, senza passare, eccetto casi sporadici, a vie di fatto. Questi 26 mila uomini non avrebbero comunque mai potuto impensierire il Governo a Roma. La capitale. era difesa da una guarnigione di 28 mila soldati, perfettamente armati ed acquartierati, ed in grado senz' altro di bloccare il tentativo insurrezionale. Ma, senza neppure fare intervenire l'esercito, fu sufficiente interrompere le linee ferroviarie a Civitavecchia, Orte, Avezzano, Segni, per bloccare l'avanzata dei fascisti, avanzata che si svolgeva comodamente in treno. Bastarono inoltre quattrocento carabinieri per congelare già completamente il tentativo fascista alle porte di Roma. La sera del 27 ottobre, chiamato da Facta, giunse a Roma il re; egli si trovava in ferie a San Rossore, ma era rientrato subito per il precipitare degli eventi. A Facta, che lo ricevette alla stazione ferroviaria, confermò la sua ferma volontà di non cedere al ricatto dei fascisti, e di conseguenza gli ordinò di prendere tutti i provvedimenti del caso per scongiurare il tentativo di colpo di stato. Quella sera stessa Facta, in base alle direttive reali, prese tutte le misure necessarie per dichiarare lo stato d'assedio, e scongiurare il tentativo di colpo di stato di Mussolini. Fu quindi preparato il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio, mentre al Viminale si preparavano i telegrammi con le istruzioni alle prefetture e venivano fatti stampare i manifesti dello stato d'assedio, da affiggere nelle vie di Roma. All'alba del 28 si riunì il Consiglio dei ministri; Facta parlò al suo Governo, e si decise, tutti concordi, di proclamare lo stato d' assedio a decorrere dalle ore 12 del giorno 28. Il generale Pugliese, comandante il presidio di Roma, venne sollecitato a prendere le misure necessarie per la difesa della capitale. Alle 8 del mattino vennero spediti i telegrammi ai prefetti, mentre Facta si recò al Quirinale per conferire con il re, e fargli quindi firmare il decreto della proclamazione dello stato d'assedio. Ma durante la notte il re dovette consigliarsi con qualcuno che gli fece cambiare idea: egli si mostrò titubante, e decise quindi di soprassedere alla firma del decreto: volle pensarci su. Facta lasciò quindi con un nulla di fatto il palazzo reale; nuovamente egli volle consultare i suoi ministri. Il Consiglio dei ministri decise allora di lanciare un proclama per far conoscere a tutti la posizione del Governo, e le responsabilità che stavano maturando in sede non governativa. Il proclama diceva: "Manifestazioni sediziose avvengono in alcune provincie d'Italia, coordinate al fine di ostacolare il funzionamento dei poteri dello Stato e di gettare il paese nel più grave turbamento. Il Governo fino a quando era possibile, ha cercato tutte le vie di conciliazione nella speranza di ricondurre la concordia negli animi. Di fronte ai tentativi insurrezionali, esso, dimissionario, ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi ed a qualunque costo l'ordine. E questo dovere compirà per intero, a salvaguardia dei cittadini e delle libere istituzioni costituzionali. Intanto i cittadini conservino là calma ed abbiano fiducia nelle misure di pubblica sicurezza che sòno state adottate. Viva l'Italia!- Viva il Re!" Il proclama fu affisso nelle sole vie di Roma, infatti non fu possibile divulgarlo a livello nazionale, essendo stata bloccata in tutta Italia l'uscita dei giornali, essendo state occupate ovunque le sedi telegrafiche e telefoniche. Alle 13 del giorno 28, Facta ritornò dal re, sollecitando nuovamente la firma dello stato d'assedio. Questa volta il re aveva già presa la sua decisione: non avrebbe firmato il decreto di stato d'assedio. Si trattò di una desione molto grave, contraria alla volontà del Governo, configurante quindi l'ipotesi di reato di alto tradimento da parte del re, che con questa sua desione andò contro la Costituzione, alla quale aveva egli pure giurato fedeltà. CosÌ si aprì la via al fascismo, che altrimenti, secondo l'unanime giudizio degli storici, non avrebbe potuto con tanta facilità conquistare il potere. E' stata avanzata l'ipotesi che a consigliare il re a non firmare lo stato d'assedio, sia stato il generale Diaz. Sembrerebbe infatti che Diaz dubitasse, dopo le esperienze fiumane, della fedeltà delle truppe regolari. -Egli avrebbe detto al re: "Maestà, l'esercito è fedele, tuttavia è meglio non metterlo alla prova. Frattanto intermediari nazionalisti e fascisti si davano da fare, tranquillizzando il re, che era ancora possibile risolvere la crisi senza ricorrere ad un atto di forza. Vittorio Emanuele III, uomo spesso poco risoluto, ed in ogni caso amante della propria tranquillità, non chiedeva di meglio che affidare il potere ad un uomo energico, e di salvare la corona, che egli vedeva traballare. Da questo momento tutta la politica italiana si svolse in un'aria da pantomima: da una parte Mussolini, ormai certo della vittoria, chiedeva tutto, e quindi la totale abdicazione dei poteri dello Stato al suo volere; dall' altro canto stava un re indeciso e sgomento che certava soltanto di salvare almeno le parvenze di rispetto costituzionale. Il re riaprì quindi le consultazioni, per risolvere la nuova crisi ministeriale, ricevendo De Nicola, De Vecchi, Orlando, Salandra, Facta e molti altri. I suggerimenti della maggior parte del leader politici consultati, designavano Giolitti, come l'unico uomo politico di prestigio, in grado in quel momento di risolvere la gravissima situazione. Ma a tutti il re dette risposte evasive e nel complesso negative. Egli aveva perduto del tutto la sua fiducia nell'anziano statista. Si andò delineando quindi la possibilità di un governo formato da Salandra e Mussolini. Ma quest'ultimo, che rimaneva ostinatamente a Milano, avvertito telefonicamente dell'intenzione del re, fece sapere che i fascisti volevano il Governo, e che non era affatto accettabile un binomio con Salandra. Il giorno 29 ottobre Mussolini, ormai certo della vittoria, pubblicò sul Popolo d'Italia un articolo con il quale fece conoscere le sue pretese totali, esclusive, di conquista del potere. Vale la pena rileggere questo articolo, che dimostra sino a qual punto potè giungere la tracotanza di Mussolini, e sino a qual punto potè giungere la pusillanimità della vecchia classe politica italiana, che a lui si contrapponeva. "La situazione è questa: - scriveva Mussolini - gran parte dell'Italia Settentrionale è in pieno potere dei fascisti. L'Italia Centrale - Toscana, Umbria, Marche, Alto Lazio - è tutta occupata dalla "Camicie Nere". Dove non sono state prese d'assalto le Questure e le Prefetture, i fascisti hanno occupato stazioni e poste, cioè i grandi centri nervosi della vita della Nazione. L'Autorità politica - un poco sorpresa e molto sgomentata - non e stata capace di fronteggiare il movimento, perchè un movimento di questo genere non si contiene e meno ancora si schiaccia. La vittoria si delinea vastissima tra il consenso quasi unanime della Nazione. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazioni dell'ultima ora. Per arrivare a una transazione Salandra, non valeva la pena di mobilitare. Il Governo dev'essere nettamente fascista. Il Fascismo non abuserà della sua vittoria, ma intende che non venga diminuita. Ciò sia ben chiaro a tutti. Niente deve turbare la bellezza e la foga del nostro gesto. I fascisti sono stati e sono meravigliosi. Il loro sacrificio è grande e dev'essere coronato da una pura vittoria. Ogni altra soluzione è da respingersi. Comprendano gli uomini di Roma che è ora di finirla coi vieti formalismi mille volte, e in occasioni non gravi, calpestati. Comprendano che sino a questo momento la soluzione della crisi può ottenersi rimanendo ancora nell'ambito della più ortodossa costituzionalità, ma che domani sarà forse troppo tardi. L'incoscienza di certi politici di Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. Si decidano! Il Fascismo vuole il potere e lo avrà!"

38) MUSSOLINI AL POTERE

Mussolini in questa circostanza si dimostrò deciso ad ottenere tutto ciò che voleva. Invano si cercò di sollecitarlo ad accettare un governo Salandra con partecipazione fascista, invano il re fece intervenire Federzoni, De Vecchi, Ciano e Grandi affinchè il futuro duce accettasse una soluzione di transizione; egli rimase a Milano chiedendo il governo per sé e per i fascisti, e respingendo qualsiasi altra possibilità d'accordo. Frattanto numerosi senatori e deputati, tutti appartenenti all'area del conservatorismo, premevano affinchè si giungesse ad un governo interamente fascista. Infine il re, premuto da mille istanze, pieno di timori per il futuro dinastico della sua famiglia, si lasciò convincere e capitolò: il giorno 29 ottobre il generale Cittadini convocò Mussolini per telefono, comunicandogli che era intenzione del re di affidargli l'incarico di formare il governo, e che di conseguenza era necessario ch'egli venisse a Roma. Ma a Mussolini non bastò neppure questo: egli pretese ed ottenne che gli venisse conferito l'incarico con un telegramma: soltanto allora si sarebbe mosso da Milano. Sicchè, facendo buon viso a questa nuova imposizione, lo stesso giorno 29 il Cittadini telegrafò a Milano a Mussolini il seguente messaggio: S.M. il Re la prega recarsi al più presto a Roma, desiderando darle l'incarico di formare il ministero. Ossequi. Cittadini". Quel giorno stesso alle ore 20 Mussolini partì in vagone letto per Roma, acclamato lungo la via dai suoi seguaci, che lo attendevano presso le varie stazioni ferroviarie di transito. Il 30 ottobre alle ore 10 e 30 Mussolini, giunto a Roma, si presentò al Quirinale al re. Pare abbia detto presentandosi: "Chiedo perdono a Vostra Maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare. Porto a Vostra Maestà l'Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla Vittoria, e sono il servo fedele di Vostra Maestà". La frase "storica" è buffa se esaminata con un minimo di senso critico. Mussolini si dichiarò "reduce dalla battaglia": da quale battaglia? Forse quella combattuta in vagone letto? Tuttavia non è da sottovalutare il significato politico tracotante, insito nella frase di Mussolini. Egli infatti volle con questa frase sottolineare nuovamente che la presa del potere da parte dei fascisti aveva carattere rivoluzionario, violento, anticostituzionale. Egli andava al governo perchè aveva vinto una battaglia; il suo ministero non derivava dalla libera scelta delle istituzioni. Il suo governo si era imposto con la forza, con la marcia su Roma. Mussolini aveva già preparata la lista del suo governo, tuttavia attese 24 ore prima di presentare ufficialmente i nomi dei componenti il suo gabinetto. Il giorno 31 il governo Mussolini iniziò ufficialmente la sua attività. Frattanto le colonne delle camicie nere, inzuppate dalle continue pioggie, attendevano, ferme presso le varie stazioni ferroviarie, ordini. Il giorno 30, mentre Mussolini era già impegnato a formare il nuovo governo, fu concesso loro di entrare a Roma. Esse quindi arrivarono nella Capitale in parte a piedi, ma i più su treni speciali, compiendo finalmente, in modo incruento, la loro marcia su Roma. Vi furono disordini e furono compiute inutili violenze: vennero infatti distrutte le sedi del "Paese", dell' "Epoca" e dell' "Avanti!". Nei quartieri operai di San Lorenzo e Trionfale si ebbero gravi disordini con tredici morti, sicchè per ristabilire l'ordine dovette intervenire l'esercito. Il successo fece ovviamente aumentare a dismisura il numero delle camicie nere, che adesso raggiunsero la ragguardevole quantità di 70 mila persone. Il giorno 31 per sei ore di seguito queste camicie nere, pittoresche nei loro strani abbigliamenti e nelle loro fogge eterogenee, sfilarono innanzi al Quirinale, salutate dal re con a fianco il generale Diaz e l'ammiraglio Thaon di Revel; mentre Mussolini, che aveva già passato in rassegna le camicie nere a Villa Borghese, non si fece vedere nel corso della sfilata. "Fu una parata della vittoria, senza alcuna importanza politica, perchè il potere era già stato conquistato senza ricorrere alla forza. Come commentò più tardi lo stesso Mussolini, era stata una rivoluzione di nuovo stile, attuata non dall'impotente comando supremo di Perugia, ma dalla direzione di un giornale di Milano. A ragione, un vecchio prelato, che cinquantadue anni prima aveva visto sfilare l'esercito italiano, potè affermare osservando la scena: "Roma, nel 1870 l'abbiamo difesa meglio".